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Piccoli appunti di scrittura solo a prima vista di scarsa importanza

Da Marcofre

Sottotitolo: in realtà hanno importanza, eccome.
A volte ho voglia di buttare giù dei consigli, delle idee, perché vedo delle “cose” in giro, che mi fanno rabbrividire. Oppure, mi ricordo di come scrivevo io una volta: e rabbrividisco.

Tranquilli: se ignorate questi appunti, non cascheranno i denti e neppure i capelli. Potete fare spallucce e e ignorarli “Perché io modestamente sono già un artista”. Avrete la compagnia di quelli che la pensano esattamente come voi. Per un po’ vi farà piacere, servirà a farvi forza, a cullarvi nell’illusione che va tutto bene.
Poi inizierà a starvi stretta. A quel punto ci saranno due strade da percorrere.

La prima, quella che recita: “È un complotto, un magna magna, sono tutti uguali”.
La seconda: “Forse ho sbagliato tutto. Non mi resta che ricominciare”.
Bene: ricominciate almeno da questi appunti.

  • In una storia, grande o piccola che sia, romanzo o racconto non importa, i punti esclamativi devono essere usati con parsimonia. Preferirei non vederli mai, ma non esiste la perfezione a questo mondo, quindi uno ogni tanto (ogni tanto), può andare bene. Però, ricordiamoci questo: non inchiodano l’attenzione del lettore, non alzano la tensione, non caricano la frase di pathos.
    È come prendere a calci un lettore, ma sui denti. Chi è il pazzo che vuol prendere a calci sui denti chi legge?

 

  • I puntini di sospensione: sono tre. Fine della storia. Ah, lo so bene che voi rivoluzionerete la narrativa italiana, la proietterete nel XXI secolo regalandole profondità, forza, eccetera eccetera. E perché siete qui a leggere queste righe? Orsù.

 

  • I punti interrogativi. Se in una stanza affollata qualcuno inizia ad agitare una chiave inglese, IO mi preoccupo. Penso che prima o poi finirà col colpire chissà chi, magari proprio me. Ecco: i punti interrogativi sono chiavi inglesi in mano a esaltati.
    Meglio starne alla larga. Voi, moderatevi.

 

  • I dialoghi NON esistono per spiegare al lettore chi è colui che parla, la sua situazione familiare, lavorativa, e via discorrendo. Se la pensi così devi smettere di scrivere adesso e correre in biblioteca a leggere almeno una cinquantina di libri entro la fine di quest’anno. Ho scritto libri, però con questo termine io intendo: Herman Melville, Lev Tolstoj, Émile Zola, Dostoevskij, Ignazio Silone, Leonardo Sciascia, Raymond Carver, Flannery O’Connor, Heinrich Böll, Charles Dickens, Cormac McCarthy.
    Come? Alcuni sono libroni? Mettiamola così: se decidi di praticare alpinismo, scalerai montagne: non pareti di 10 metri. Montagne. Nessuno ti obbliga a farlo, ma una volta deciso, che cosa ti aspetti? Di trovare ascensori ai piedi del Cervino?

 

  • Viva la semplicità. Che vuol dire: soggetto, verbo, oggetto. La base è quella, e anche se la letteratura (quella che resta, e sfida i secoli), non è certo composta solo da questa triade, sono pronto a scommettere che se ci si obbliga ad affrontare una frase con questo metodo, almeno eviteremo mostruosità.
    Di solito certi autori si avvitano in eleganti (ai loro occhi) periodi il cui solo scopo è rendere la loro scrittura indecifrabile. Siccome non hanno le idee chiare, immaginano che confondendole anche al lettore riusciranno ad acquisire la patente di intellettuale.
    Sbagliato.
  • La decantazione non è un processo: ma un’arte. O forse, un processo che conduce all’arte, o almeno indirizza la storia sulla buona strada. Qualunque cosa si sia scritto, bisogna lasciarla riposare. Decantare. Dopo, avete il dovere di prenderla a pugni. Se non lo fate voi, ci penserà un altro. Se lo fate voi, troverete comunque qualcuno che le cambierà i connotati a suon di critiche (a volte giuste, a volte dettate da invidia). Però avrete imparato qualcosa in più sulla scrittura, su di voi, sul mondo.
    Che cosa?
    Ma vi devo dire tutto io?

 


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