Piccoli scorci di libri #40

Creato il 25 agosto 2014 da Laleggivendola @LaLeggivendola
Mi chiamo Irma Voth di Miriam Towes – traduzione di Daniele Benati – Marcos y Marcos, 2012
È un libro di cui ho sentito parlare spesso, e sempre molto bene. E se da un lato ha retto egregiamente alle aspettative, dall'altro non riesco proprio a trovarmi d'accordo con quanto mi era stato preannunciato. Perché sì, Mi chiamo Irma Voth è un libro bellissimo, ma non è affatto il romanzo allegro e ridanciano che mi avevano descritto. Certo, qualche sorriso viene strappato dall'assurdità di un dialogo o di una situazione. E da quello che ne pensa Irma, o dalle parole della sorellina Aggie, o per le bizzarre credenze dei mennoniti tra i quali hanno sempre vissuto. Ma non sono riuscita a leggerlo come un libro divertente o comico, neanche un po'. Forse è il mio sistema umoristico che non funziona, non so. Mia madre per convincermi a guardare Breaking Bad (grazie per esserci riuscita, comunque, è la mia serie preferita in assoluto) ha continuato a descrivermi una serie di situazioni tanto patetiche da deprimermi solo a sentirle. Magari mi manca il senso del patetico, chissà.Ma dicevo, questa storia è narrata in prima persona da Irma stessa. Ha diciannove anni, è sposata a un messicano che l'ha appena lasciata ed è per via di questo legame che il padre ha deciso di allontanarla dalla famiglia, confinandola in una proprietà adiacente alla loro, ma con qualche ettaro di nulla a separarli. Sono mennoniti, tipo amish ma meno amish. E Irma si tiene per sé i suoi dubbi, è una persona calma, bizzarra ma sensata. Poi un giorno arriva una troupe cinematografica, e il regista chiede a Irma di farle da interprete con la sua attrice tedesca e la trama inizia a scorrere, prima piano e, da metà in poi, sempre più velocemente.Non mi va di entrare nei particolari, e consiglio di non leggere la quarta di copertina perché rivela davvero troppo. Ma lo consiglio. Un sacco. Bella la storia, belli i personaggi, belli i dialoghi, bello quel che si è visto del Messico.
Shadow Hunters – La città di ossa di Cassandra Clare – traduzione di Fabio Paracchini – Mondadori, 2007
Mi ci è voluto un sacco per finire questo libro, il primo volume della celeberrima serie. Me l'ha prestato la ragazza che viene a dare una mano in libreria e... beh, coi miei libri sono una bestia, ma con quelli degli altri sono una restauratrice. Non potendomelo portare dietro né quando esco né nella vasca né durante i pasti... beh, tutto sommato ci ho messo anche poco.La trama è presto detta. Clarissa è una ragazza di sedici anni ed è in discoteca con l'amico Simon, quando si trova ad essere testimone di un attacco da parte di tre Shadow Hunters (i cari vecchi Cacciatori) nei confronti di un demone che viene presto fatto fuori. Il fatto che sia riuscita a vedere i Cacciatori quando loro non intendevano farsi vedere è un bel mistero, quindi uno di loro fa in modo di trascinarla nella loro base, per poterci capire qualcosa. Nel frattempo la madre di Clarissa viene rapita e... demoni. Un po' di demoni. E poi una parte decisamente troppo lunga nel ritrovo degli Shadow Hunters. E poi il cattivo che ce l'ha coi mezzosangue. Coff.Ci sono due cose che mi hanno lasciata un po' 'meh' di questo primo libro. Prima di tutto la traduzione. C'erano frasi che stridevano tantissimo, si riusciva a vedere la forma sintattica originale sotto lo scialbo adattamento italiano. A un certo punto ho ritrovato il mio acerrimo nemico, 'situation' tradotto come 'situazione'. Google Translate, ci incontriamo di nuovo.L'altra cosa che non mi è piaciuta è la semplicità con cui tutto pare filare liscissimo. A volte parlo del 'meccanismo' della trama e di rotelle che iniziano a girare, si mettono in moto. Uso parecchio questi sinonimi, perché nella mia testa la trama è un intricato aggeggio meccanico che deve essere acceso al momento giusto, e in cui i denti delle rotelle devono incastrarsi perfettamente. Ecco, in questo caso più che un meccanismo mi è sembrata una strada liscia e oliata. Tutto accade nel momento giusto e questo non va bene. Non è plausibile, e a me dà fastidio. Va bene che sono a un buon tot d'anni di distanza dal target di riferimento, ma sono ben lungi anche dal target di Harry Potter e lì il meccanismo c'è eccome. Ed è pure di quelli complessi.Ci sono, in La città di ossa, un po' troppe coincidenze e un paio di momenti in cui veramente mi sono chiesta che razza di editor abbia avuto la Clare. Intendiamoci, un editor non deve scrivere né riscrivere, ma dovrebbe far notare le discordanze, i tempi morti, le piccole distrazioni che si risolvono in due minuti. Ma perché diavolo non sono state segnalate, certe incongruenze? O il fatto che la parte centrale del libro sia di una noia mostruosa? L'inizio è carino, e il terzo finale mi è piaciuto davvero, ma per arrivarci...I personaggi però mi piacciono. Ho letto un po' di critiche sul fatto che sono troppo stereotipati, però... non saprei. Cioè, Clarissa mi ha irritata in certi punti, perché la Clare ci teneva molto al fatto che passasse per una tipa tosta con la risposta pronta, e per un po' l'ha resa simpatica come una medusa nel costume. Però via, non è un brutto personaggio, una volta che la Clare smette di farla incacchiare a caso. E mi è piaciuto moltissimo Jace, lo Shadow Hunter figo. Mi è piaciuto perché è stupido. Cioè, c'è sempre questo tipo bello-e-dannato-forte-infallibile in qualsivoglia declinazione di fantasy. In questo caso sì, Jace è bello e forte e tutto, ma è talmente idiota che il suo essere power player non infastidisce. Simon me le ha fatte un po' girare ma ha senso, Alec e Isabella non si vedono moltissimo e spero di conoscerli meglio in futuro.Alla fine... sì, non è male. Dopotutto è il primo di una serie, spero che nei volumi successivi i difetti vengano smussati. Non è Harry Potter, va bene, ma è interessante e piacevole.Lo consiglio con riserve, ecco.

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