(Little Big Man)
Regia di Arthur Penn
con Dustin Hoffman (Jack Crabb/Piccolo Grande Uomo), Faye Dunaway (Louise Pendrake), Martin Balsam (Merriweather), Richard Mulligan (Generale Custer), Jeff Corey (Wild Bill Hickok), Chief Dan George (Cotenna di Bisonte), Amy Eccles (Raggio di Luna), Ruben Moreno (Ombra Silenziosa), Thayer David (Reverendo Pendrake).
PAESE: USA 1970
GENERE: Western
DURATA: 140′
Raggiunta la veneranda età di 121 anni, il bianco Jack Crabb racconta a un giornalista come, nella seconda metà dell’ottocento, venne cresciuto dagli indiani col nome di Piccolo grande uomo. Tornato tra i bianchi tenta di far carriera, ma alla fine, schifato dalla società cosiddetta civile, sposa una squaw e finisce per essere l’unico sopravvissuto della battaglia di Little Big Horn…
Tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger, adattato da Calder Willingham, è, con Soldato blu, il primo western revisionista della storia del cinema, il primo film in cui viene adottato il punto di vista dei nativi e i bianchi passano – giustamente – dalla parte del torto. Il discorso di Penn non è affatto semplicistico come potrebbe apparire: non c’è divisione manichea tra indiani buoni e bianchi cattivi, c’è piuttosto la contrapposizione tra una società selvaggia ma giusta (pura?) e una società (teoricamente) “civile” squallida e sanguinaria, tra i legittimi abitanti di un paese e gli usurpatori che li cacciarono a pistolettate. Gli indigeni sono sicuramente primitivi, ma non usano violenza se non per difendersi, vivono in armonia con la natura e trattano ogni uomo alla stessa maniera (nell’accampamento c’è addirittura un omosessuale “riconosciuto”). L’esatto opposto della società civile, in cui regnano repressione sessuale, fondamentalismo religioso, violenza e sopraffazione. Film western anomalo, per certi versi unico, per quanto è privo di qualsiasi retorica, lontano dal melodramma, spogliato di qualsiasi vena eroica o romantica, vicino all’allegoria più che al racconto di formazione. L’inverosimiglianza della trama (Jack passa da bianco a indiano, da indiano a bianco, da estremista religioso a truffatore, da pistolero a commerciante, ecc) diventa paradossalmente l’unico modo per comprendere la realtà in tutte le sue sfaccettature: gli “status” di Jack rappresentano tutti i “tipi” di uomo che popolavano l’epopea.
Penn fonde abilmente la commedia (tutta la prima parte) alla tragedia (i massacri degli indiani), la cronaca alla leggenda, e accosta coerentemente personaggi realmente esistiti (Wild Bill Hickcok, il generale Custer, Buffalo Bill) alle vicende “inventate” del protagonista. Il suo non è un punto di vista, è la realtà dei fatti, finalmente raccontata nella propria scomoda interezza. Finalmente, per la prima volta, il generale Custer viene rappresentato per ciò che era davvero, un criminale in divisa con ambizioni di potere e una folle sete di sangue. Metacinematografico e molto, molto ironico, resta, come tutti i grandi classici, un film apparentemente semplice che però sa raccontare una storia più ampia. In questo caso, la storia di una nazione. Bellissime immagini curate dal direttore della fotografia Harry Stradling Jr, perfettamente sposate alla regia elegante e fortemente simbolica di Penn. Da segnalare anche le divertenti musiche di John Hammond e l’interpretazione ineccepibile del 33enne Hoffman. L’inquadratura finale, nella sua silenziosa semplicità, è un pezzo di grande cinema che racchiude infinite riflessioni sull’esistenza umana. Proprio per questo, è un film filosofico. Nemmeno un Oscar per quello che è, senza ombra di dubbio, uno dei capolavori del cinema americano.