Per rispetto al lettore dico le seguenti cose: le indicazioni della casa editrice sulla seconda di copertina – che leggo sempre dopo, quando prendo l’impegno di parlare di un libro che non scelgo - mi sembrano pertinenti e veritiere: “Nell’arco di una lunga notte, la storia di una grande amicizia. (…) romanzo intessuto di esperienza vera. La storia di un’educazione, di una perdita e di un’eredità. Una storia molto personale, certo, ma anche un capitolo di storia di questa Italia che va in disfacimento, e forse morirà, senza lasciare ai propri figli un’eredità precisa”; ammesso che distinguere abbia un senso, questo scritto definito romanzo a me pare più un racconto lungo (indipendentemente dal numero di pagine, che sono 105 nette delle edizioni Laurana).
La storia è questa: un giovane scrittore piange la morte di quello che è stato il suo mentore, un intellettuale anagraficamente genitoriale, e lo piange in una lunga notte insonne in cui ricordo, ombra del ricordo e realtà si combinano a formare un quadro definito dell’uomo Vittorio e dell’impronta di quell’uomo sullo scrittore.
Una specie di biografia per pensieri, se vogliamo, che sono gli insegnamenti che l’autore ha fatto suoi, non semplicemente un’aneddotica fine a sé stessa, insegnamenti che travalicano l’aspetto professionale del rapporto, lavoro e vita che procedono, nel flusso di coscienza ordinato e strutturato, al passo: il mestiere remunerato di scrittore, di collaboratore di riviste e case editrici, e il mestiere di critico letterario, di intellettuale, che non necessitano di orari di ufficio o di luoghi alieni a quelli in cui si vive la quotidianità: l’adulto e il giovane si incontrano spesso nell’abitazione privata dell’adulto, spesso in ore serali, e sono certamente quelli i luoghi – il salotto, il balcone –raccontati con più calore.
Una specie di biografia che, però, rimane fiction: per quanto saggi e spesso indiscutibili, gli atteggiamenti nell’approccio alla vita e al lavoro dell’adulto Vittorio sono fortemente legati all’emotività che muovono nel protagonista, per cui l’identificazione del lettore – soprattutto in alcune pagine particolarmente felici, coinvolgenti – avviene vivendo il privilegio - e il dramma che segue l’impossibilità di non viverlo più – del giovane scrittore e non, in assoluto, nell’essere fruitore altrettanto degli insegnamenti dell’intellettuale.
Vi è qualche licenza: il luogo comune dello scrittore che vive nell’appartamento modesto, riadattato a scannatoio per giovani donne che entrano ed escono il tempo di un amplesso tra libri in disordine e appunti sparsi, le sue vanità: un certo – dichiarato, anche se non in questi termini – snobismo per cui si avverte l’esigenza (per insicurezza?) di scrivere frasi come “l’imperfetto dell’indicativo usato sia nella protasi sia nell’apodosi del periodo ipotetico”, tuttavia queste licenze sono ampiamente perdonabili.
L’annotazione completa, a pagina 117, è questa: “Alla base del libro c’è un lutto reale che è stato per me particolarmente doloroso. Avrei preferito non doverlo affrontare, e non mi illudo che scrivere un romanzo possa costituire una forma di risarcimento. Spero tuttavia di essermi comportato con dignità”.
Per quanto mi riguarda, Gabriele Dadati, la risposta è: sì, ti sei comportato con grande dignità.
Media: Scegli un punteggio12345 Il tuo voto: Nessuno Media: 4 (1 vote)