Pier Damiano Ori, ATTI NATURALI, Carta Bianca 2012
Dunque c’è grande attenzione alla storia, ma qui intesa come immagine specchiata dell’accadere; e politicizzata anche, nel senso di esperienza che si riverbera nell’animalità sociale, con repentine fughe verso un altrove appartato – e questo accade quando lo sguardo si é già stancato di guardare:
Vedi che è grigio
vedi che è liscio
verticale.
Certo, se ti allunghi
lo tocchi.
Ma io ti dico: non farlo…
…guarda…guarda…
ti stancherai…
p.67
Questo sguardo non è innocuo, rivolto innocentemente al presente, in quanto attiva “culture neuronali” ereditate, sovrapposte. Così Pier Damiano Ori intuisce che, in fondo, l’esperienza del dire e del fare non può che conservarsi nel gesto totale compiuto dagli occhi: la fissazione dell’attimo senziente e sfuggente.
Porta rispetto
dei leggenti
Perchè prima sono stati
parlanti
E torneranno ad esserlo
Fra poco
Il tempo di una riga.
p.64
Ecco: l ‘esperienza del parlare, che poi diventa scrittura, se da una parte ricongiunge i vivi con i morti, attraverso un gesto di riesumazione della lingua più o meno in/cosciente, d’altra parte si pone come resoconto di una resa:
Il mondo sarà quello:
che non e’ quello che vuoi
nemmeno quello che sei
e nemmeno quello che sai
(bugie)
è quello che è.
Per l’unica ragione che (tu) lo vedi.
p.65
Ma di che sguardo si tratta? Sicuramente avvertiamo la presenza di funzioni potenziate; le cose vengono mostrate in una specie di naturalezza/squallore, sono disopacizzate, riportate alla luce dalla de/cifrazione dei loro segni.
Ma questi versi non si fermano alle sequenze minime:
Il cappotto,
quiete e avventura
mio
blu
panno
pesante
niente giorno
lunga sera.
p.32
spessissimo adoperano un potenziamento motorio, un portare oltre lo stato di quiete attraverso l’adozione retorica di una lunga catena di esortativi e imperativi -. Ed e’ questo forse il motivo che porta a parlare Alberto Bertoni di “moralismo”; perchè la disillusione si trasforma in dis/incanto piuttosto che in canto, laddove il racconto tende a spaziare tra il dopo e il prima, unificando le categorie percettive in una sorta di spazialità non declinata, senza profondità e altezza. Atemporalizzata.
Il contemporaneo, insomma, è una categoria naturale dei sensi, non uno strumento della ragione. E’ strumento della ragione, piuttosto, l’idealità della biografia perfetta, una sorta di città ideale realizzata coi mattoni del corpo ma che non è possibile portare a compimento; (si vedano le dieci biografie iniziali in funzione di sezione aurea, e l’altra, sintomatica, di Raimondo Montecuccoli).
Sai cosa penso: il racconto, il conto, conta meno del ricordo. E allora, leggi ricorda e scrivi interrompendo, se vuoi.
p.43
Quindi, non il ricordo ma l’interruzione: sono poesie come dna inframmezzati da altro: altro dalla capacità sensoria, da sottoporre al vaglio di un surpluss di intensificazione poetica; oppure esperienza frammentata, nel senso di una perdita irrecuperabile che colloca la poesia nel limbo di una s/conoscenza che canta, che si canta, malgrado il mondo, che ne canta il vuoto piuttosto che la presenza. Che è, a ben vedere, un e/sortare la presenza del discorso, soprattutto perchè, se è af/franto l’organismo del mondo, occorre che la poesia sappia riscrivere, reinventare i suoi costrutti, la sua formidabile retorica fatta di accumulazione e discernimento.
Balugina, così, l’idea di una poesia che segue la cosa, che non sa dirla nel mentre ma in uno sfasamento temporale: va detto solo ciò che è già accaduto e solo questo essere accaduto può diventare presente.
Sebastiano Aglieco
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