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Pier Paolo Pasolini – Il Decameron (1971) / I Racconti di Canterbury (1972).

Creato il 19 dicembre 2011 da Senziaguarna

Prima di passare alla recensione, vorrei fare una piccola avvertenza.
Quelli di cui sto per parlare sono due film che io definirei come minimo “di difficile digestione”, e dunque consiglio a chi ha intenzione di vederli qualche istruzione per l’uso.
Anzitutto, metterei un bollino rosso per i soggetti impressionabili ; questo perché Pier Paolo Pasolini, che io confesso aver sottovalutato, non risparmia praticamente nulla. Inoltre, non credo siano film da vedere tutti in una volta: la divisione in novelle facilita, e forse è meglio lasciar passare un po’ di tempo tra una novella e l’altra, per avere il tempo di “digerirla”. E, soprattutto, esigono una grande freddezza e capacità di vedere oltre il linguaggio del regista: se ci si fermasse al linguaggio, non si vedrebbe altro se non un’accozzaglia di storielle che non si può nemmeno definir “piccanti”, e che, anzi, dopo un po’ causano un inevitabile voltastomaco. Pasolini è un provocatore, ed è facile cadere nelle sue trappole.
Si tratta dei due film che aprono l’ultimo periodo cinematografico di Pasolini e che costituiscono, insieme a Il fiore delle Mille e una Notte (1974), quella che i critici cinematografici chiamano “Trilogia della Vita”, o “Tetralogia della Morte”, se s’include anche l’ultimo film che girò prima di morire, nel 1975, Salò o le 120 giornate di Sodoma (e che sconsiglio categoricamente a tutti, è il film più terribile e distruttivo della storia del cinema, farebbe crollare anche il critico con i nervi più saldi!): Il Decameron (1971) e I Racconti di Canterbury (1972).

Pier Paolo Pasolini – Il Decameron (1971) / I Racconti di Canterbury (1972).

Confesso di essermi avvicinata a questi due film soprattutto spinta da un’interessante recensione di Alberto Moravia (L’Espresso, 11 luglio 1971). D’altronde, conoscevo già Pasolini e il suo crudo realismo, attraverso film come Il Vangelo Secondo Matteo, Medea ed Edipo Re. Ma mi sono accorta ben presto che questo non era il Pasolini degli anni ’60, e per un motivo ben preciso: c’è stato il ’68, che dell’abbattimento dei tabù, soprattutto in materia sessuale, ha fatto una bandiera (anzi, Pasolini è stato a pieno titolo uno degli intellettuali che ha preparato il ’68).
Quando uscì nelle sale italiane, nel 1971, Il Decameron (in realtà una selezione di 7 novelle tratte dall’opera di Boccaccio) scatenò un putiferio, e il regista si beccò una serie di denunce per “oltraggio al comune senso del pudore”; molto rumore per nulla, visto che il film incassò solo in Italia 4 miliardi di lire e fu premiato con Orso d’Oro al Festival di Berlino.
Il particolare che ha destato, al primo impatto, la mia curiosità di appassionata di Medioevo, è che il regista abbia deciso di ambientare tutte o quasi le novelle a Napoli. L’effetto è decisamente originale. Anzitutto perché si ha modo di vedere luoghi che di solito non vengono presi in considerazione nei film di ambientazione medievale: la piazza di Santa Chiara e i bassi dei quartieri spagnoli a Napoli, l’ex convento di San Francesco a Ravello da cui si vede lo scorcio del panorama allora incontaminato della Costiera Amalfitana, il borgo di Caserta Vecchia, ecc. Per non parlare del fatto che fa un certo effetto vedere personaggi abbigliati con costumi trecenteschi non esattamente fedeli ma convincenti (curiosità: il costumista è Danilo Donati, il costumista preferito di Zeffirelli) parlare in modo tale che sembra di trovarsi in quello che Matilde Serao all’inizio del Novecento aveva definito “Il ventre di Napoli”; anche perché quasi tutti gli interpreti non sono professionisti, sono gente comune, presa dalla strada, tipico dei film di Pasolini. Impressione che viene rafforzata dalla colonna sonora, curata nientedimeno che da Ennio Morricone, nella quale ricorre spesso il Ritornello delle lavandaie del Vomero, uno dei canti in lingua napoletana più antichi che si conoscano, risalente forse appunto al XIV secolo.
Dal punto di vista visivo e non solo, lo definirei un’apologia del brutto: in alcune scene, soprattutto per il pubblico femminile, è quasi spontaneo distogliere lo sguardo dallo schermo. D’altronde l’estetica del brutto e dello sgradevole, della realtà a tutti i costi, è propria del regista.
A scanso di equivoci, va chiarito un particolare fondamentale: il Decameron di Pasolini non è quello di Boccaccio. Certe situazioni nelle quali il solo intento di Boccaccio (intento squisitamente medievale) è semplicemente quello di far ridere e basta, in Pasolini si trasformano in una rivincita contro un aspetto del “potere costituito”. Credo sia emblematica la scena all’interno di una rielaborazione della novella di Messer Forese da Rabatta e di maestro Giotto (che qui diventa un allievo di Giotto, forse Maso di Banco, interpretato da Pasolini stesso), nella quale il pittore in questione, che sta portando a termine un lavoro commissionatogli dai francescani del monastero di Santa Chiara a Napoli, arrivato in ritardo in refettorio, mentre tutti alzano la mano per farsi il segno della croce, lui la alza sì… ma per grattarsi la testa. Altro esempio è una delle novelle che io definisco “inguardabili”: quella di Masetto da Lamporecchio che si finge muto per “infiltrarsi” come ortolano in un monastero di donne, le quali faranno tutte a gara per averlo come amante. Ebbene, Masetto, per Boccaccio, è semplicemente un giovanotto “dai bollenti spiriti” che usa l’astuzia per avere a sua disposizione un “harem” intero su cui sfogarsi; nel film, invece, è un poveraccio che per fame si prostituisce alle monache, e diviene così uno dei “ragazzi di vita” tanto cari al regista.
Interpreti più bravi: Franco Citti, un diabolico Ser Ciappelletto che nella casa dei due usurai, poco prima di stramazzare, preso da un’improvvisa nostalgia per Napoli, anacronisticamente si mette a cantare a squarciagola insieme a loro l’ottocentesca Fenesta ca Lucive (i miei complimenti comunque, quasi non si sente l’accento romano!); e Angela Luce, una Peronella prorompente e sanguigna, bravissima come non sarebbe più stata sullo schermo.
Scena più bella: il sogno dell’allievo di Giotto, quella a cui si riferisce questo video. Qui si vede il Pasolini artista: un affresco vivente dei Novissimi che è un’opera d’arte a sé stante. Un sogno a proposito del quale il pittore, più avanti, nella scena finale, una volta finito il suo affresco reale a Santa Chiara, pronuncerà la frase che getta un’ombra sull’intera pellicola: ”Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?

Pier Paolo Pasolini – Il Decameron (1971) / I Racconti di Canterbury (1972).

Quest’ombra sembra diventare sempre più grande ne I Racconti di Canterbury, quando dal sole di Napoli si passa alla nebbia dell’Inghilterra. E non è l’Inghilterra “borghese” dell’opera di Geoffrey Chaucer, questa: è un’Inghilterra primitiva, selvaggia, fatta di lande desolate e di case di legno, popolata da personaggi che sembrano saltare fuori dalle tavole fiamminghe del Quattrocento.
A mio parere, i due film non si possono trattare separatamente: anzi, si può dire che, per molti aspetti, I Racconti di Canterbury sia quasi simmetrico al Decameron; addirittura il motivo musicale che introduce il film (così sguaiato in bocca a un Inglese) è proprio Fenesta ca Lucive. Con una piccola variante, però: a differenza del primo film, come dimostra questo video che costituisce proprio l’inizio della pellicola, la cornice del pellegrinaggio a Canterbury in cui si collocano le novelle è stata mantenuta.
Questo secondo film della “Trilogia della vita”, secondo me rappresenta lo stadio successivo di una stessa ricerca intrapresa dal regista, e, più che di gioia di vivere, sembra pervaso da una gran tristezza di fondo. Si moltiplicano le novelle tragiche e cruente, la sessualità comincia a trasformarsi anche in aggressività. A me ha lasciato un amaro in bocca tremendo, soprattutto per le inquadrature in cui Chaucer (interpretato da Pasolini) viene rappresentato nel suo studio, intento a scrivere, nella solitudine più totale.
Personalmente, avrei dato un solo sottotitolo a questi due film: “Alla ricerca della felicità”. La mia opinione è che Pasolini, nel Decameron, si sia buttato a capofitto alla ricerca di un’umanità ideale che non esiste, cercando proprio nel “libero amore” tipico di quegli anni un modo perfetto di comunicazione tra gli uomini. Cominciando però, nei Racconti di Canterbury, a rimanerne deluso. E solo.



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