La pellicola di Nuzzi rende giustizia soprattutto alla figura di Mamarosa, una “milanesona” di 135 kg, “generosa, buona e materna” la quale, con il suo Casino, esercita in paese la stessa autorità del Municipio e del prevosto. La Beluzzi non avrebbe potuto incarnare meglio questa “donna-cannone” con “la voce rauca da ergastolano”, che si prendeva cura delle sue ragazze e dei loro clienti con la benevolenza di una madre. La speciale intimità che la Mamarosa aveva con i clienti è ben approfondita nel film da una novella scena in cui il Càmola, dopo una serata di “chiacchere e flanella”, va a dare la buonanotte a Mamarosa già sotto le coperte. In camicia da notte e con l’abat-jour accesa, lei dispensa consigli e affetto dal letto. Nuzzi incastra bene anche l’insuperabile osservazione del prevosto (un ottimo Bernard Blier) il quale, giunto a dare l’estrema unzione a Mamarosa fra le mura del bordello, non manca di notare una similitudine tariffaria con i prezzi delle messe funebri: “Tre voci, tre prezzi: semplice, doppia, mezz’ora. Era uguale alla sua tariffa: semplice, solenne, cantata”. Non manca neppure la “ciuladura” dell’Avv. Parietti, il divano “pieno di croste e patacche” legato a uno degli episodi più divertenti del libro, con protagonisti il Càmola e Ines (Agostina Belli), la donna più desiderata di Luino. Inventato di sana pianta, invece, il leitmotiv della “pissa”, in cui il vecchio Rimediotti si vanta di sapere riconoscere il grado di “disponibilità” di una donna dal tintinnio che produce urinando. In questo cosiddetto “canto della Bernarda”, oltre a qualche battuta volgare e a esplicite scene di sesso, prende vita la solita virata sconcia alla quale non sembrano scampare le riduzioni cinematografiche dei romanzi di Chiara. Anche qui, Chiara collaborò alla sceneggiatura, ma questo sembra essere il dazio da pagare alla commedia italiana “scollacciata” degli anni Settanta. Un banalizzare continuo che finisce per rendere anche il locale capo squadrista, Spreafico (curiosamente siciliano nel film), una mera caricatura del fascistello di provincia a capo della “squadra anti-culo”, senza far trasparire le note più dolenti che risuonano fra le righe dell’antifascista Chiara. Le ronde punitive bersagliano il Migliavacca ― che da tappezziere diventa sarto, per prestarsi ad altre battute ― ma non si occupano affatto del “consesso di signori che governavano il paese”, identificati da Chiara come “i massoni”. Sospeso fra il neorealismo delle pagine di Chiara, lo sguardo onirico di stampo felliniano e il tributo alla commedia “scollacciata”, viene fuori un film godibile a cui lo stesso Chiara pare dare un “sigillo di garanzia” con un breve cameo seduto al tavolino di un caffè sulla piazza di Luino.
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