PierPaolo Pasolini : Il canto popolare

Da Silvy56

Improvviso il mille novecento cinquanta due passa sull'Italia: solo il popolo ne ha un sentimento vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia la modernità, benché sempre il più moderno sia esso, il popolo, spanto in borghi, in rioni, con gioventù sempre nuove - nuove al vecchio canto - a ripetere ingenuo quello che fu. Scotta il primo sole dolce dell'anno sopra i portici delle cittadine di provincia, sui paesi che sanno ancora di nevi, sulle appenniniche greggi: nelle vetrine dei capoluoghi i nuovi colori delle tele, i nuovi vestiti come in limpidi roghi dicono quanto oggi si rinnovi il mondo, che diverse gioie sfoghi... Ah, noi che viviamo in una sola generazione ogni generazione vissuta qui, in queste terre ora umiliate, non abbiamo nozione vera di chi è partecipe alla storia solo per orale, magica esperienza; e vive puro, non oltre la memoria della generazione in cui presenza della vita è la sua vita perentoria. Nella vita che è vita perché assunta nella nostra ragione e costruita per il nostro passaggio - e ora giunta a essere altra, oltre il nostro accanito difenderla - aspetta - cantando supino, accampato nei nostri quartieri a lui sconosciuti, e pronto fino dalle più fresche e inanimate ère - il popolo: muta in lui l'uomo il destino. E se ci rivolgiamo a quel passato ch'è nostro privilegio, altre fiumane di popolo ecco cantare: recuperato è il nostro moto fin dalle cristiane origini, ma resta indietro, immobile, quel canto. Si ripete uguale. Nelle sere non più torce ma globi di luce, e la periferia non pare altra, non altri i ragazzi nuovi... Tra gli orti cupi, al pigro solicello Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini d'Ivrea gridano, e pei valloncelli di Toscana, con strilli di rondinini: Hor atorno fratt Helya! La santa violenza sui rozzi cuori il clero calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia feroce nel feudo provinciale l'Impero da Iddio imposto: e il popolo canta. Un grande concerto di scalpelli sul Campidoglio, sul nuovo Appennino, sui Comuni sbiancati dalle Alpi, suona, giganteggiando il travertino nel nuovo spazio in cui s'affranca l'Uomo: e il manovale Dov'andastà jersera... ripete con l'anima spanta nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù resta nel popolo. E il popolo canta. Apprende il borghese nascente lo Ça ira, e trepidi nel vento napoleonico, all'Inno dell'Albero della Libertà, tremano i nuovi colori delle nazioni. Ma, cane affamato, difende il bracciante i suoi padroni, ne canta la ferocia, Guagliune 'e mala vita! in branchi feroci. La libertà non ha voce per il popolo cane. E il popolo canta. Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l'antica, la festiva leggerezza dei semplici. Ma quale dura certezza tu sollevi insieme d'imminente riscossa, in mezzo a ignari tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare. Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole, questa storia il cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria... E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa.

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