Pietà per Ninive. Su una poesia di Claudia Ruggeri

Creato il 05 febbraio 2016 da Vivianascarinci

 “da allora questa disgraziata, mia amata, riunita Italia si allunga e adagio poco sfiata, e s’allunga sempre più e comincia proprio da Lecce questa catastrofe delle distanze” da una lettera

 

Quest’anno, in autunno, ricorre il ventennale della morte di Claudia Ruggeri, nata a Napoli nel 1967. Nel 2006 peQuod pubblica Inferno minore un libro a cura di Mario Desiati che raccoglie, insieme ad alcune poesie giovanili, l’omonimo testo proposto nel 1996 (due mesi dopo la morte dell’autrice) dalla rivista L’incatiere.

Ho scelto di proporre questa poesia, qui e al circolo dei lettori del fondo librario, perché raccoglie  una  significativa varietà e complessità di registri. Come prima cosa, nell’approfondimento di queste due pagine di Inferno minore (p.121 e 122) si deve tenere presente che i versi di Ruggeri prendono dichiarata ispirazione da un passo della Bibbia che l’autrice parafrasa a conclusione, volendo probabilmente con ciò schiudere anche una possibile interpretazione  in chiave civile del proprio cifrario: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (Giona 4,10-11).

I primi nove versi riportati di seguito, si rifanno a Virgilio e sembrano precedere i ventitré successivi fungendo in qualche modo da introduzione, malgrado la poesia poi cambi drasticamente registro. La città come chiave di lettura in questa prima parte prende gli attributi di Troia in fiamme, da cui enea salpa lasciando nel rogo, secondo il volere degli dei, l’ombra/fantasma della moglie creusa (figura mitologica che coincide a volte anche con quella di Euridice).  La caratteristica dell’eroe ritratto da Ruggeri in lettera minuscola, è quella di avere l’anima che lo precede nel viaggio e si mette a capo di una spedizione la quale inizia enea alla vastità ma non alla profondità del mare.

L’introduzione virgiliana sembra volta a inquadrare il mare e consente a Ruggeri, raggiunta l’ubicazione del viaggio, di aprire virgolette e dire: “io”.  Nonostante e di seguito il viaggio dell’eroe, quest’io si colloca nel quadro classicheggiante iniziale ma in circostanze diverse. L’anima che dice io  la si può conoscere non per similitudine ma per differenza rispetto all’altra: quella dell’eroe è un foco, l’anima inabissata è una bestia con gli attributi dell’animale che l’io desidera per sé: lo sguardo intero sufficiente, la capacità che può renderla ricolma e l’afflato a risiedere profondamente, ancora più sotto l’abisso, nel sabbione, come una sogliola. Se la deessa dell’io stanzia l’anima, gli dei dell’eroe la rigettano oltre il corpo e il viaggio per ritrovarla si chiama destino. Allora ciò che è evidente è solo un (di)vertimento della memoria, una biforcazione tra i contorni fissi delle cose e il loro margine acrobata. Solo in questo modo le terre tornano perfette e anche le città lo sono, perché piene di nomi aventi lo stigma della stessa biforcazione, a patto che l’io abbia realizzato il proprio desiderio di avere uno sguardo intero. Dunque dall’ottica di una sogliola, come si può non avere pietà di Ninive distrutta, dei suoi animali e di quella  gente che in superficie non sa distinguere quello che fa una propria mano, da quello che fa l’altra?  

Fu forse una certa passione  per la poesia diversamente civile che spinse la giovanissima Ruggeri a rivolgersi proprio a Franco Fortini che nonostante l’apertura di dialogo e il riconoscimento del talento di lei non fece mistero di sentirsi a disagio di fronte a quella “testa forte” che sembrava inconciliabile con la fragilità spericolata di certi “slanci letterari”. “Ma proprio di questo lei ha bisogno: di rovesciare quanti modelli ha in sé e fare piazza pulita” le scrive Fortini. Come se questo agire impunemente entro i modelli, non potesse comunque costituire un dato ulteriore di originalità, rispetto a scelte differenti espresse non al di fuori di quanto noto e riconoscibile.

A pensarci bene però, un po’ disturbante doveva esserlo, la protervia in una ragazza molto bella e giovane che non era nata per distruggere gli schemi, come tutto sommato è abbastanza semplice fare almeno nelle intenzioni. Ma semmai per sentirsi in diritto di mettere le mani nella tradizione e concorrere, nel prendersi il merito di esserci precocemente riuscita “vorrei prendermi il merito/dell’accento romanzo/ che risuona nella lingua/ selecta dell’amoroso comma” (p.129).

Claudia Ruggeri oggi avrebbe 49 anni e se la malattia mentale non avesse avuto la meglio, è probabile che avrebbe detto molto di quanto sarebbe stato necessario ascoltare da una poeta donna riguardo questi ultimi vent’anni di storia italiana.


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