Pietas e dignità politica.

Da Suddegenere

Ieri un uomo ha assassinato una donna con la quale aveva avuto una storia,  davanti alla sua bambina,  e poi, asserragliato in una chiesa, si è suicidato.  Ho notato subito, con  grande disagio, come i giornali si siano dilungati a descrivere stato d’animo e comportamenti  dell’uomo, come se il “tragico epilogo” non fosse tanto l’assassinio di una donna che peraltro lascia da soli due figli, quanto soprattutto la sua morte. “Non riesco ad avere  nessuna pietà per quell’uomo”, ho pensato subito.

DI seguito una riflessione di Maria Giovanna Piano

“” Solo chi abbia saltato tutti i passaggi della politica delle donne di questi ultimi decenni, può continuare a  parlare di  “questione femminile” nel bel mezzo del dispiegarsi di una macroscopica “questione maschile”.

Un mix costituito da perdita di centralità nel lavoro, perdita del potere di presa, simbolica e materiale, sulla realtà femminile, messa in scacco dei valori tradizionali di una identità tutta costruita sui miti della virilità, dell’autosufficienza e sulla rimozione sistematica e profonda di quella condizione creaturale che fa di tutti i viventi, esseri bisognosi e dipendenti. La parte del genere umano che da sempre si è ossessivamente rappresentata con le insegne del vincitore, subisce la sorte del rovesciamento riservato nella fiaba ai personaggi superbi e spietati che alla fine si ritrovano in cenci. Il disagio maschile va attentamente considerato, ma non va consolato. Spetta anzitutto agli uomini venirne a capo, intanto riconoscendolo, mettendo in gioco sestessi, ripensando, a partire da sè, cultura , modalità di relazioni, scelte di vita.

Non sono pochi quelli che da tempo hanno incrinato la compattezza dell’appartenenza, chiamandosi fuori e avviando un importante lavoro politico. Molti altri invece, convinti di poter mancare l’appuntamento con se stessi, patiscono in maniera cieca e furiosa la sofferenza portata da una  storia, pubblica e personale, che ha cominciato a presentare loro il conto. L’odio degli uomini verso le donne, che oggi si evidenzia in un aggressivo, inedito rivendicazionismo maschile e  nella sua impennata assassina, ha radici antiche.

E’ lo stesso che nei secoli ha svilito il lavoro di civiltà  compiuto dall’eccellenza femminile, traducendolo in servizio dovuto, che ha fatto della sessualità il luogo primario dei rapporti di forza e dell’assoggettamento, che ha reso irrappresentabile la relazione madre/figlia e ha impedito alle società di edificarsi sul fecondo presupposto  di un esplicito contratto sociale tra donne e uomini. Lo stesso odio insomma che ci ha tolto tutto quello che la libertà femminile ci ha restituito e va restituendo.  

Nel femminicidio va in scena l’ultimo atto di una irriducibilità femminile diventata per molti uomini un nodo insostenibile e tragico. Da viva lei non è più in suo potere. Lui non è un mostro, è un uomo come tanti che vede nella libertà di lei il controvalore del proprio scacco. Appartiene a una normalità maschile che non si interroga, che va avanti per inerzia e avendo perso il suo potere ha preso ad agitarne la maschera con rinnovata tracotanza.  Alla fine è lei a rimanere a terra, per non rialzarsi mai più, travolta dall’impeto di una piena che forse un tempo le era parsa amore.

Noi non cadremo nella trappola di un neo- vittimismo, nè lasceremo che la lotta alla violenza monopolizzi tutte le nostre energie. Non riesumeremo forme politiche inutili, già archiviate. Non sostituiremo parole di giustizia con proclami giustizialisti. Soprattutto non useremo la sofferenza maschile come forma di risarcimento, lo impedisce la pietas e più ancora una dignità politica guadagnata in tanti anni di lavoro condiviso. Ma su quella scena che gronda sangue, dove lui ha barbaramente chiuso il conflitto, noi terremo aperto il nostro. Su quella scena no, nessuna irrompa a portare soccorso all’assassino. “”

31/12/2012