Quello che conta, infatti, è che questa tecnica portata a livelli altissimi di complessità, di raffinatezza e di precisione esecutiva è stata messa al servizio, per oltre cinquant’anni, di un immaginario visivo inedito e inquieto, partecipe del presente pur muovendosi sulle coordinate di un linguaggio espressivo che ha seguito un proprio indirizzo di ricerca fatto di memorie del passato e inquietudini moderne.
Non sarebbe fuori luogo, in effetti, dire che la sua sia stata, ed è tuttora, un’arte senza tempo, che ha seguito una traiettoria precisa e quasi senza incertezze dagli esordi agli esodi recenti.
Al suo avvio, quando partecipa alla Biennale di Milano del 1955, Pietro Diana è soprattutto pittore: ha studiato a Brera con De Amicis e con Disertori, ed è un chiarista -con un occhio a Cèzanne- e un incisore con un occhio a Morandi. Era abbastanza comune, del resto, che un giovane di quella generazione, diplomato nel 1954 a Milano, avere quei punti di riferimento: la sua pittura aveva la tavolozza schiarita dei giorni di pieno sole, in cui le cose si sfarinano alla vista e prendono la consistenza della pittura, mentre sulla lastra le case isolate nella campagna, secondo un’iconografia tipica del paesaggio italiano nel Novecento, erano blocchi compatti, costruiti con dei lumi abbaglianti e grandi campiture di ombra. Il registro, in ogni caso, rimaneva quello naturalistico che guardava al secondo Ottocento e si allacciava a quella tradizione del guardare con occhio poetico alle cose del mondo per rappresentarle con spirito verista.
Da qui, Pietro Diana ha seguito la via dell’onirico, di un mondo notturno e rarefatto, maturato guardando ai “pittori dell’immaginario”, fatto di castelli diroccati e sublimi e di animali mostruosi, poi di falene e di civette accanto a corpi femminili sensuali. Da quell’inizio degli anni Sessanta, infatti, il suo lavoro procede su coordinate proprie, incurante degli schiamazzi delle mode artistiche e delle novità delle avanguardie: le istanze dell’informale e della Nuova Figurazione, fino alla Pop art ed oltre, lo lasciano del tutto indifferente. Non li ignora, anzi fra i più assidui frequentatori del suo studio s’incontrano scultori come Floriano Bodini, maestro del Realismo esistenziale milanese, e una lunga amicizia lo aveva legato anche a un pittore astratto come Domenico Manfredi, con cui Diana condivise anche una mostra. Ma di quelle ricerche, nel suo lavoro non rimane quasi traccia, come spesso succede nel percorso dei visionari, che puntellano il proprio percorso creativo su precisi punti di riferimento atemporali; Goya e Rembrandt, a cui Pietro Diana ha guardato a più riprese in determinate fasi della sua ricerca, sono sullo stesso piano, senza discrimini cronologici, instaurando un dialogo fuori dal tempo e dallo spazio. Del resto, proprio il maestro spagnolo ha insegnato che il sogno della ragione genera mostri, e che questi mostri non nascono da una coscienza razionale, ma da un’inventiva che non ha riferimenti se non in un mondo interiore insondabile razionalmente.
La curiosità iconografica del suo lavoro, però, e l’ammirazione per la perizia tecnica, per il virtuosismo esecutivo di questo modo raffinatissimo di condurre la lastra, difficile persino da stampare per la finezza di certi tratti sottili frammista all’esigenza di un bianco abbagliante che non abbia la minima traccia di fondo o di ombreggiatura, non deve distrarre dal punto di stile, come aveva sottolineato un anonimo recensore, nel 1986: «Sono fantasie notturne, ma dominate da un senso altamente classico e misurato della forma, dell’equilibrio, dell’euritmia. L’abilità, la maestria di Pietro Diana sta soprattutto nell’estrema finezza del segno, nella sapienza dei rapporti tonali, nel gioco prezioso di luci e ombre. Un alito di magia e di mistero emana da queste immagini tramate di fremiti inafferrabili eppure così limpide, sobrie, armoniose». In effetti, le sue scene, sospese in un luogo senza connotazioni e senza tempo, sono in un’atmosfera rarefatta, in uno stato d’immobilità, in attesa di un evento possibile; in cui una sottile tensione, sul fondo, suscita un senso di sublime, sotterranea inquietudine.
Da qualche anno, però, Pietro non fa più incisione: sta lavorando ad un automate, un congegno meccanico animato, a metà fra la scultura e l’oggetto fantastico, a tema prevalentemente erotico. Ha iniziato alla metà degli anni Ottanta, trasferendo il suo repertorio di mostri, di civette e di falene in strutture semoventi, animate da congegni meccanici. Vi lavora già da molto, ma questo è normale nei tempi lunghi della sua produzione: Pietro Diana, da sempre, è l’emblema della pazienza, del lavoro meditato. Non si è mai preoccupato di dover produrre: alla lastra incerata, come al quadro e all’automa, si è sempre avvicinato con lavoro meticoloso, facendo del rigore e della nitida precisione uno stile di comportamento. – Luca Pietro Nicoletti