Signor Presidente, Colleghi, l’articolo 8 del decreto che stiamo discutendo è l’ultima manifestazione di una tattica politica sconcertante: quella che consiste nel tentativo di riformare la chiave di volta del diritto del lavoro, cioè la disciplina del licenziamento, il fatidico articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970, senza nominarlo. L’idea è di risolvere un enorme problema politico senza affrontarlo a viso aperto, senza che sia il Parlamento a discuterne il problema e a decidere il contenuto della riforma.Questo stesso tentativo il Governo lo ha compiuto una prima volta, in questa legislatura, con il Collegato-Lavoro varato l’anno scorso: lì si tentò di svuotare l’articolo 18, senza toccare la norma, col consentire che la materia del licenziamento potesse essere devoluta dal contratto individuale a un arbitro di fatto scelto dal datore di lavoro. In quell’occasione il tentativo è fallito perché lo ha bloccato il Presidente della Repubblica: ricordo in proposito che nella lettera con cui ha rinviato al Parlamento il provvedimento legislativo il Capo dello Stato non ha affatto negato la legittimità e la piena plausibilità di una riforma legislativa di questa materia, ma ha sottolineato la necessità che la questione venga affrontata in modo diretto ed esplicito, chiamando le cose con il loro nome e discutendone apertamente in Parlamento. Non sembra avere raccolto questo invito il ministro del Lavoro Sacconi, il quale, dopo aver lanciato il sasso ha subito nascosto la mano; dopo aver fatto inserire nel testo del decreto una norma che implicitamente consente un mutamento profondo della disciplina dei licenziamenti, fino alla sua possibile abrogazione totale di fatto, ha dichiarato ai giornali – cito testualmente – che “l’articolo 18 non viene minimamente toccato”. In questo modo il ministro non ha soltanto disatteso l’invito del Presidente della Repubblica di cui ho detto prima, ma ha anche mancato di rispetto agli elettori, all’opinione pubblica, a tutti noi italiani, trattandoci come degli stupidi, cui un annuncio ben fatto può far credere qualsiasi cosa, anche contro la realtà dei fatti.
Un’altra manifestazione di questa tattica politica si è avuta con il disegno di legge, presentato dal ministro del Lavoro alle parti sociali – ma non formalmente in Parlamento – l’11 novembre dello scorso anno. Anche lì il tentativo era quello di dare al Governo una delega in bianco su questa materia senza neppure nominarla; e ovviamente senza che il Parlamento neppure ne discutesse. Ci sono alcune analogie e addirittura coincidenze tra quel disegno di legge e l’articolo 8 oggi al nostro esame. Però, se non altro, in quel disegno si prevedeva un limite alla potestà derogatoria conferita alla contrattazione collettiva in materia di diritto del lavoro: il limite dei principi costituzionali e di quelli sanciti dalle convenzioni internazionali e direttive europee vincolanti per la Repubblica Italiana. Nell’articolo 8 del decreto-legge n. 138 al nostro esame anche questo limite scompare: la contrattazione collettiva potrà intervenire sulla materia della “disciplina del rapporto di lavoro” senza alcun limite, cioè potrà riscrivere il diritto del lavoro da cima a fondo, o anche cancellarlo del tutto, ignorando gli standard internazionali al cui rispetto siamo obbligati e i nostri vincoli costituzionali interni.
La cosa ancora più stupefacente, però, è che questo articolo 8 non pone neppure alcun requisito circa la natura e i soggetti stipulanti del contratto aziendale cui viene attribuito l’enorme potere di cui si è detto. Che cosa intende l’articolo 8, quando parla di “contrattazione collettiva”? Negli ultimi mesi, e ancora in questi ultimi giorni il ministro Sacconi non ha perso occasione per ribadire che egli intendeva rispettare rigorosamente le scelte compiute dalle parti sociali circa la struttura della contrattazione collettiva, i criteri di misurazione della rappresentatività nei luoghi di lavoro, i rapporti tra contratti di diverso livello. Ci saremmo dunque attesi che, nell’attribuire alla contrattazione collettiva gli amplissimi poteri derogatori di cui si è detto, questo articolo 8 richiamasse con una delle diverse tecniche normative in cui la cosa poteva essere fatta i criteri di individuazione degli agenti contrattuali e di misurazione della loro rappresentatività ultimamente definiti con l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, firmato da tutte e tre le confederazioni sindacali maggiori. Niente di tutto questo: la norma che il ministro del Lavoro ha inserito nel decreto-legge semplicemente ignora, quindi azzera, le scelte compiute dalle parti sociali con quell’importantissimo accordo interconfederale.
Vediamo più da vicino, dunque, a chi il ministro vorrebbe affidare il compito di riscrivere ad libitum il diritto del lavoro. Una prima categoria di soggetti abilitati è costituita dalle “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”; nessun accenno a requisiti di rappresentatività di queste associazioni al livello aziendale. Una seconda categoria di soggetti abilitati è costituita dalle “rappresentanze sindacali operanti in azienda”. Anche qui - ma qui è più grave - la norma non pone alcun requisito di rappresentatività, né alcuna altra qualificazione; queste “rappresentanze aziendali” possono dunque essere quelle “qualificate” previste dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, ma anche quelle legittimate a operare in modo del tutto generico dall’articolo 14, che possono essere costituite da chiunque: anche da tre amici al bar. A queste “rappresentanze sindacali”, dunque, senza alcun filtro di rappresentatività o di altro genere, viene attribuito il potere di riscrivere con l’imprenditore l’intero diritto del lavoro. Ma come può il ministro del Lavoro di un Paese civile, membro dell’Unione Europea e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, varare una norma come questa, che conferisce una delega in bianco sull’intera disciplina dei rapporti di lavoro a soggetti del tutto indeterminati?
Se per questo aspetto la norma dice evidentemente troppo, per un altro aspetto essa dice altrettanto evidentemente troppo poco. La Banca Centrale Europea, cui in questi giorni siamo interamente debitori della nostra tenuta nei mercati finanziari, nella lettera al nostro Governo dei giorni scorsi ci ha chiesto innanzitutto una riforma del nostro diritto del lavoro che concilii la maggiore flessibilità per le strutture produttive con la maggiore sicurezza nel mercato del lavoro per i lavoratori: discorso, questo, che implica evidentemente un intervento esteso a tutto l’apparato di sostegno del reddito e della professionalità del lavoratore che perde il posto di lavoro. Di questo nell’articolo 8 del ministro Sacconi non vi è assolutamente nulla. Ma la stessa BCE, con quella lettera, ci ha chiesto un’altra cosa di grande rilievo: il superamento del dualismo tra lavoratori protetti e non protetti nel nostro tessuto produttivo. Ci ha avvertiti che la flessibilità che il nostro sistema attinge ai milioni di collaboratori autonomi in realtà dipendenti, di “lavoratori a progetto”, di lavoratori associati, e simili, non ha niente a che fare con la buona flessibilità di cui il nostro sistema ha bisogno: questo dualismo ci condanna a una svalutazione di metà del nostro capitale umano; e per di più tiene lontani dal nostro Paese gli investitori stranieri, i quali non hanno il know-how necessario per operare in questa economia semi-legale, se non del tutto illegale. La BCE ci chiede, dunque, di ricostruire un sistema protettivo capace di essere davvero universale, capace di garantire la piena sicurezza economica e professionale non soltanto alla parte forte dei lavoratori, ma anche alla parte oggi più debole, agli ultimi della fila. Questa richiesta della BCE è ineludibile nelle nostre scelte di politica del lavoro, se è vero che la civiltà di una nazione non si misura sulla sicurezza e il benessere che essa riesce a garantire al proprio cittadino medio, ma sulla sicurezza e il benessere che essa riesce a garantire agli ultimi tra i suoi cittadini, ai meno dotati, ai più sfortunati. Bene: di tutto questo nell’articolo 8 che il ministro del Lavoro ci propone non c’è assolutamente nulla. Nulla che anche solo accenni alla necessità di scalfire il regime di feroce apartheid che caratterizza oggi il nostro tessuto produttivo.
Per altro verso, la norma di cui stiamo discutendo è proprio concettualmente sbagliata, nella parte in cui essa consente alla contrattazione aziendale “qualsiasi” di cui ho detto prima di disporre di interessi e diritti di terzi, che al tavolo della negoziazione aziendale non hanno alcuna voce. Così, per esempio, se la norma dovesse entrare in vigore quella contrattazione aziendale “qualsiasi”, senza alcun filtro, potrebbe esentare il committente e/o l’appaltatore dalla solidarietà passiva nei confronti dell’istituto previdenziale o dell’erario per il versamento dei contributi o delle ritenute fiscali. È evidente a chiunque come questo esito sia del tutto improponibile.
Una sola certezza questa norma ci darebbe, quella della nascita di un nuovo dualismo nel nostro tessuto produttivo: il dualismo tra le imprese che contrattano con Cgil, Cisl e/o Uil, le quali presumibilmente farebbero un uso molto sorvegliato dei poteri di deroga rispetto alle leggi vigenti, e le imprese che invece contrattano con un sindacato autonomo, o con una “rappresentanza aziendale” spuria, ottenendo l’esenzione da qualsiasi norma inderogabile. Non posso credere che neppure Confindustria, né qualsiasi altra associazione imprenditoriale seria, possa puntare a questo risultato.
Vorrei proporre un’ultima osservazione, in tema di festività soppresse. Il Governo ha giustificato la scelta di sacrificare tre festività infrasettimanali civili, e nessuna di quelle religiose, con l’osservazione secondo cui queste ultime sarebbero coperte irreversibilmente da un vincolo concordatario. Senonché nel 1977, quando ci fu una riduzione del numero delle festività infrasettimanali di circa un terzo, da 16 a 10 se non ricordo male, la Chiesa fu assolutamente sollecita nel rispondere alla richiesta del nostro Governo di una modifica dell’elenco. Come allora, anche oggi nessuna difficoltà verrebbe opposta, per esempio, allo spostamento alla domenica più vicina delle due festività più vicine a quelle del Natale e Capodanno, cioè l’Immacolata e l’Epifania, in modo da ristabilire un opportuno equilibrio tra feste religiose e feste civili.
Degli altri e non certo meno importanti aspetti di questo decreto-legge, nella materia di competenza di questa Commissione, parleranno gli altri colleghi del Gruppo democratico.