Pietro Ichino, valuta il disegno di legge sul lavoro

Creato il 10 aprile 2012 da Leone_antonino @AntoniLeone
Nella scheda che segue la valutazione di merito e di peso pratico di ciascuna innovazione o gruppo di innovazioni normative è data, in modo totalmente soggettivo e quindi opinabilissimo, con un indice dall’1 al 10 – La valutazione di merito si colloca nell’ottica della maggiore o minore coerenza con l’obiettivo generale del superamento del dualismo fra protetti e non protetti e dello spostamento del nostro sistema dalla situazione attuale in direzione del modello della flexsecurity; il peso pratico indica quanto prevedibilmente la nuova disposizione inciderà – in senso positivo o negativo – sui comportamenti reali, sulla cultura materiale del Paese, quindi su quello spostamento.1. L’OSSERVATORIO SUGLI EFFETTI DELLA RIFORMA (art. 1, commi 2-5) – Il disegno di legge si apre con l’istituzione di “un sistema permanente di monitoraggio e valutazione” degli effetti della riforma sul funzionamento effettivo del mercato del lavoro e sui flussi di manodopera, con raccolta sistematica – a cura dell’Inps – di dati, anche disaggregati e individuali anonimizzati, che verranno posti gratuitamente a disposizione di tutti i ricercatori interessati. È una innovazione di metodo di grande importanza, sulla quale il ministro Fornero aveva preso pubblicamente un impegno due settimane or sono al seminario delle Fondazioni Cariplo e Giuseppe Pera sulla sperimentazione al servizio delle politiche sociali e del lavoro: impegno mantenuto. L’auspicio è che i dati forniti da questo nuovo “osservatorio” consentano nel prossimo futuro di aumentare il tasso di pragmaticità del dibattito su questi temi, riducendo lo scontro fra posizioni assunte per partito preso. Voto: 10, rivedibile in relazione alle modalità di attuazione - Peso pratico : 1 a breve termine, 8 sulla distanza nel caso di piena attuazione e accessibilità della banca-dati2. LE MODIFICHE DI DISCIPLINA DEL CONTRATTO A TERMINE (art. 3) – La disciplina nazionale dei contratti a tempo indeterminato viene armonizzata con la direttiva europea n. 1999/70, con l’esenzione da qualsiasi motivazione per il primo contratto. Per contrastare gli abusi vengono allungati gli intervalli che devono separare i contratti a termine stipulati in sequenza tra le stesse parti. Viene aumentato dell’1,4% il contributo per l’assicurazione contro la disoccupazione nel rapporto a termine (esclusi gli stagionali e le sostituzioni temporanee) rispetto a quello ordinario, in considerazione del maggior rischio di disoccupazione che ne consegue, con previsione di parziale restituzione della differenza nel caso di conversione in contratto a tempo indeterminato. Nel complesso mi sembrano misure ragionevoli ed equilibrate. Voto: 7 – Peso pratico: 6 3. LA REVISIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO SPECIALI MINORI (artt. 4-5, 7, 10-12) – Viene abolito il contratto di inserimento, con l’idea che la sua funzione debba d’ora in poi essere svolta dal contratto di apprendistato (oggetto dell’articolo 5). Vengono messe a punto la disciplina del lavoro accessorio retribuito con i vouchers, quella del lavoro a chiamata, quella dell’associazione in partecipazione. Delega legislativa per una riscrittura da cima a fondo della disciplina degli stages (tirocini formativi). Tutti interventi misurati che mi sembra meritino approvazione, tranne l’aggiunta di qualche complicazione non necessaria, soprattutto nel lavoro a tempo parziale. Voto complessivo: 6,5 – Peso pratico: 5 4. LICENZIAMENTI: L’ACCORCIAMENTO DEL TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE (art. 13, commi 2-3) - Il Collegato-lavoro (legge n. 183/2010) aveva istituito un termine di decadenza di 270 giorni, al fine di evitare che – a seguito dell’impugnazione stragiudiziale (lettera raccomandata) – il lavoratore potesse tergiversare per anni prima di proporre il ricorso in giudizio. Ora questo termine, per i licenziamenti intimati è ridotto a 180 giorni. Poiché lo stesso disegno di legge prevede poi un procedimento giudiziale speciale, su questa materia, con tempi molto stretti (artt. 16-20), l’imposizione di un termine breve per l’impugnazione giudiziale appare giustificatissima; ma perché sei mesi e non uno o due, visto che il lavoratore ha già avuto due mesi per l’impugnazione stragiudiziale? I casi in cui il lavoratore licenziato attende più di due o tre mesi a presentare l’impugnazione in giudizio sono comunque abbastanza rari. Voto: 7 - Peso pratico: 2 5. L’ESAME CONGIUNTO PREVENTIVO PER IL LICENZIAMENTO ECONOMICO (art. 13, comma 4) – La procedura amministrativa, necessaria in tutti i casi di recesso per motivo obiettivo soggetto all’articolo 18 St. lav., si apre con la comunicazione del datore di lavoro alla Direzione per l’Impiego competente e non può durare più di 27 giorni. Riproduce, in misura ridotta, la procedura prevista per i licenziamenti collettivi. Nella maggior parte dei casi in cui il lavoratore non riterrà di poter sostenere la totale pretestuosità del motivo addotto dalla controparte, si può prevedere che la procedura si concluda con una transazione di natura economica. La disposizione appare sensata e opportuna, a condizione però che venga esclusa la sospensione dell’efficacia del licenziamento nel caso di malattia sopravvenuta in corso di procedura (altrimenti è prevedibile che tutti i lavoratori coinvolti si “metteranno in malattia” prima della scadenza del termine del procedimento). Voto: 6 – Peso pratico: 7 6. LA LIMITAZIONE DELL’ENTITÀ DELL’INDENNIZZO IN TUTTI I CASI DI DIFETTO DEL MOTIVO E DI VIZIO FORMALE DEL LICENZIAMENTO (art. 14, commi 4-6) – Salvi i casi di licenziamento discriminatorio, in tutti gli altri casi l’indennizzo a cui il datore di lavoro può essere condannato viene limitato nella sua entità. Quando si aggiunge alla reintegrazione, l’indennizzo non può superare le 12 mensilità dell’ultima retribuzione. Quando invece costituisce l’unica sanzione per un mero difetto formale del licenziamento individuale, l’indennizzo va da 6 a 12 mensilità. Quando infine costituisce l’unica sanzione per l’insufficienza del motivo (soggettivo od oggettivo) del licenziamento, esso deve essere determinato in misura tra 12 e 24 mensilità, tenendosi conto dell’anzianità di servizio, delle dimensioni dell’azienda, del suo fatturato, del comportamento e delle condizioni delle parti. Qui avrei molto preferito un minimo più basso e un massimo più alto, in relazione all’anzianità di servizio: 12 mensilità possono essere troppe per il ragazzo assunto da un anno, troppo poche per chi ha lavorato in azienda 20 o 30 anni. Sta di fatto, comunque, che queste limitazioni riducono drasticamente il rischio degli esiti paradossali prodotti dalla vecchia disciplina. Voto: 8 – Peso pratico: 9 7. LA LIMITAZIONE DEI CASI IN CUI SI APPLICA LA REINTEGRAZIONE (art. 14, commi 4-7) – È questa l’innovazione più controversa e sulla quale si sono concentrate tutte le tensioni politiche. In riferimento sia al licenziamento per motivo disciplinare (soggettivo), sia a quello per motivo economico-organizzativo (oggettivo), la nuova norma distingue due casi: quello in cui il giudice accerta una radicale infondatezza del motivo in linea di fatto (per esempio: la mancanza che si imputa al lavoratore non è stata da lui commessa; oppure: l’imprenditore in realtà non intende sopprimere il posto come dice di voler fare; oppure ancora: non è vero che all’autista è stata tolta la patente di guida) e quello in cui il giudice ritiene invece che il motivo addotto sussista, ma non sia sufficiente per giustificare il recesso (per esempio: il lavoratore ha effettivamente dato un pugno al collega, ma c’era l’attenuante della provocazione; oppure: è vero che all’addetta alla guida dell’autocarro è stata tolta la patente, ma la stessa avrebbe potuto anche essere adibita utilmente ad altre mansioni). Nel primo caso il giudice dispone la reintegrazione, cui si aggiunge l’indennizzo fino a un massimo di 12 mensilità di cui si è detto sopra nel § 6 (comma 4); qualora si tratti di licenziamento per motivo economico-organizzativo, il giudice in questo caso “può″ disporre la reintegrazione (comma 7). Nel secondo caso, cioè quello di (sussistenza ma) ritenuta insufficienza del motivo addotto, il giudice dichiara il rapporto di lavoro comunque risolto, disponendo il solo indennizzo tra il minimo di 12 e il massimo di 24 mensilità.
La prima critica che può essere mossa a questa nuova norma riguarda il caso del licenziamento per motivo economico-organizzativo: qui appare davvero poco comprensibile che al lavoratore incolpevole venga negato qualsiasi indennizzo per il solo fatto che il motivo economico-organizzativo è ritenuto effettivamente sussistente. Un’altra critica – seconda non per importanza - riguarda il fatto che la distinzione tra inesistenza e insufficienza del motivo addotto dall’imprenditore è molto labile (in diversi miei scritti ho sostenuto che nella maggior parte dei casi essa è concettualmente impossibile) e consente che l’esito del giudizio sia influenzato in misura eccessiva dall’orientamento personale del giudice. È anche vero, però, che la norma indica in modo inequivoco il favor del legislatore per la soluzione indennitaria; e questo - producendo sicuramente un’influenza sul comportamento dei giudici - favorirà notevolmente la soluzione transattiva in termini economici, come accade in tutti gli altri Paesi europei. Voto: 7 – Peso pratico: 8 con tendenza a crescere per quel che riguarda le decisioni dei giudici 8. LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO (art. 14, comma 7) – La nuova norma offre una protezione rafforzata contro il licenziamento motivato con la disabilità del lavoratore, quando questa non sussista o non incida in modo rilevante sulla performance, oppure quando la persona disabile sia ritenuta diversamente utilizzabile in azienda. In questo caso, il giudice che ritenga il licenziamento non giustificato deve condannare il datore alla reintegrazione e all’indennizzo fino a un massimo di 12 mensilità. Stesso discorso per il caso del licenziamento del lavoratore malato, quando non sia stato superato il periodo di comporto (qui forse sarebbe stato più logico mantenere la sanzione attuale dell’inefficacia del licenziamento fino allo scadere del comporto). Non viene, però, affrontata la questione importante e delicata del licenziamento per scarso rendimento non dipendente da disabilità o da malattia in fase acuta: qui la soluzione che combina nel modo di gran lunga migliore equità ed efficienza sarebbe quella dell’indennizzo come filtro automatico delle scelte aziendali, modulato in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore e dovuto in tutti i casi in cui il datore abbia l’evidenza del difetto di rendimento ma non ritenga di poter sostenere o dimostrare la negligenza. Senonché il caso del licenziamento del low performer non affetto da infermità non viene contemplato nella nuova norma, col risultato di un elevatissimo grado di incertezza circa l’esito del possibile giudizio. Voto: 4 – Peso pratico: 8 9. LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO (art. 15) – La nuova norma disattiva una trappola procedurale che negli ultimi vent’anni ha causato l’annullamento di moltissimi licenziamenti collettivi (comma 1) e consente opportunamente che vengano sanate mediante accordo sindacale al termine della procedura di esame congiunto preventivo gli altri vizi procedurali (comma 2). Dispone però la sanzione più severa – reintegrazione più indennizzo – per le irregolarità procedurali non sanate (con disparità di trattamento delle stesse rispetto al caso del licenziamento individuale: v. sopra, § 6) e per la violazione dei criteri di scelta fissati dall’articolo 5 della legge n. 223/1991, che regola la materia. Ora, si dà il caso che quei criteri di scelta siano formulati in modo da consentire tutte le interpretazioni possibili, con la conseguente estrema aleatorietà dell’esito del giudizio in proposito. Logica avrebbe voluto, invece, che qui si applicasse la stessa sanzione di natura indennitaria di cui il comma 7 dell’art. 14 prevede l’applicazione nel caso di insufficienza del motivo oggettivo. Intendiamoci: non che questa nuova norma peggiori le cose sul terreno dei licenziamenti collettivi; ma neppure le migliora in coerenza con l’intendimento generale del provvedimento. Voto: 4 – Peso pratico: 5 10. LA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO GIUDIZIALE IN MATERIA DI LICENZIAMENTO (artt. 16-21) – Si delinea un procedimento speciale per le controversie in materia di licenziamento, con due novità di rilievo: a) l’istituzione di una sorta di primo grado di natura cautelare, modellato sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale (art. 28 St. lav.), che si aggiunge normalmente ai due gradi di merito; b) l’istituzione di una corsia privilegiata rispetto a tutte le altre cause di lavoro. Bene questo secondo punto; sul primo sorgono invece notevoli perplessità. Innanzitutto, il procedimento cautelare già esiste (art. 700 c.p.c.) ma non è obbligatorio; e gli uffici giudiziarii più efficienti tendono a scoraggiarlo, offrendo alle parti un primo grado davvero rapido; in questi uffici, la nuova procedura costituirà per questo aspetto un appesantimento invece che uno sveltimento. In secondo luogo va detto che sovente l’accertamento circa il motivo del licenziamento è molto più complesso rispetto all’accertamento del comportamento antisindacale, non prestandosi pertanto a istruttorie sommarie; e negli uffici giudiziari meno efficienti vi è un alto rischio che al provvedimento cautelare adottato in tempi brevi senza una adeguata istruttoria seguano anni di attesa prima della sentenza di merito di primo grado. La nuova disciplina processuale assumerebbe tutt’un altro significato pratico se – molto ragionevolmente – si stabilisse che l’ordinanza con cui si conclude la fase cautelare iniziale può disporre in via provvisoria la reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice ravvisi la discriminazione o comunque un motivo illecito del licenziamento, mentre negli altri casi, in attesa della sentenza di merito, l’ordinanza cautelare può disporre soltanto il pagamento di una provvisionale: ciò che sarebbe coerente con l’intendimento generale del disegno di legge, nel senso di individuare come sanzione ordinaria per il difetto di giustificazione del licenziamento quella indennitaria, rispetto a quella reintegratoria. Voto complessivo: 5 – Peso pratico: 8 11. GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI (artt. 22-52) – Quella sul riordino degli ammortizzatori sociali è la parte più ambiziosa del disegno di legge, dopo quella sui licenziamenti: mira a istituire un’assicurazione contro la disoccupazione tendenzialmente universale (ASpI) destinata ad assorbire tutte le precedenti assicurazioni settoriali, riconducendo la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria (ed evitandone l’utilizzazione per mascherare situazioni di sostanziale disoccupazione). Avrei preferito che anche una parte del costo del licenziamento per l’impresa venisse destinata a un trattamento complementare di disoccupazione: ci arriveremo alla prossima tappa. Voto complessivo: 7 – Peso pratico: in partenza 5, tendente a 9 o 10 nei prossimi anni, via via che la riforma andrà a regime 12. L’ASSISTENZA AL LAVORATORE DISOCCUPATO (artt. 59-63) - Meno apprezzabile è la parte del disegno di legge nella quale si passa dalle politiche del lavoro passive a quelle attive. Qui si enuncia la necessità che al lavoratore venga offerta un’assistenza adeguata per il reperimento della nuova occupazione; ma non si individua la “copertura amministrativa” di questa disposizione: in particolare, non si individuano gli incentivi che possano trasformare un’amministrazione fin qui molto inefficiente in questo campo in una produttrice di servizi di buona qualità. Il trattamento economico di disoccupazione viene sottoposto alla condizione della disponibilità effettiva del lavoratore per tutto quanto necessario al reperimento e occupazione del nuovo posto; ma il meccanismo appare ancora formalmente e sostanzialmente burocratico: non si capisce bene perché questa regola che fino a oggi non ha funzionato dovrebbe incominciare a funzionare per effetto della nuova norma. Voto: 4 – Peso pratico della norma: 3 13. E LE DISPOSIZIONI SULLE COLLABORAZIONI AUTONOME (artt. 8 e 9)? - I lettori si chiederanno perché in questa scheda siano state saltate le disposizioni del disegno di legge contenenti le norme di contrasto all’abuso delle collaborazioni autonome. Se queste disposizioni si fossero accompagnate alla terz’ultima versione della riforma della disciplina dei licenziamenti proposta dal ministro Fornero (quella, per intenderci, di cui si è discusso nella seconda metà di marzo), la mia valutazione di merito si sarebbe espressa in un voto 8, con peso pratico 9 (un voto ancor migliore avrei espresso a seguito di alcune correzioni volte a discernere meglio le collaborazioni autonome fasulle da quelle genuine: per esempio con una sorta di graduazione inversa della presunzione di dipendenza al crescere del livello del reddito del collaboratore). Ma ora di quelle disposizioni è stata rinviata l’applicazione di un anno; e forse in realtà è un rinvio alle calende greche. Non si stenta a comprendere questo rinvio. Perché la conversione in rapporti di lavoro normale, dall’oggi al domani, di molte centinaia di migliaia di collaborazioni autonome è pensabile soltanto se il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato viene reso molto più flessibile e appetibile per le imprese di quanto non facciano le norme contenute in questo disegno di legge (soprattutto in seguito agli ultimi aggiustamenti che hanno ridotto l’incisività della nuova disciplina dei licenziamenti).
La realtà è che Pd e Cgil, premendo per questi aggiustamenti, hanno accettato esplicitamente di rinunciare alla grande operazione di riassorbimento di quelle centinaia di migliaia di collaborazioni autonome fasulle nell’area di applicazione del diritto del lavoro. Ne abbiamo conferma anche in una dichiarazione del responsabile nazionale Pd per l’economia, Stefano Fassina, riportata dal Corriere della Sera dell’8 aprile: “[Emma Marcegaglia] ha detto cose di buon senso. Non si riesce a combattere la precarietà se si aumenta il costo del lavoro per le imprese [...]. Ha ragione su due punti: la contribuzione aggiuntiva sui contratti a tempo determinato e la trasformazione ex lege delle committenze prevalenti. Va anche ridotto l’aumento dei contributi pensionistici per i lavoratori parasubordinati”. Con tanti saluti alle conclusioni dell’Assemblea programmatica tenuta dal Pd a Genova nel 2010, che puntavano tutto sull’aumento del costo del lavoro precario rispetto a quello subordinato regolare a tempo indeterminato. Accontentiamoci, dunque, per ora, di un passo avanti sulla materia dei licenziamenti e su quella dell’universalizzazione e riordino del trattamento di disoccupazione, che almeno ci riavvicina al resto d’Europa per questo aspetto. Sperando che l’intervento di “manutenzione” dell’articolo 18 produca, per ora, almeno l’effetto di ridurre l’incentivo all’abuso delle collaborazioni autonome.

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