La prima critica che può essere mossa a questa nuova norma riguarda il caso del licenziamento per motivo economico-organizzativo: qui appare davvero poco comprensibile che al lavoratore incolpevole venga negato qualsiasi indennizzo per il solo fatto che il motivo economico-organizzativo è ritenuto effettivamente sussistente. Un’altra critica – seconda non per importanza - riguarda il fatto che la distinzione tra inesistenza e insufficienza del motivo addotto dall’imprenditore è molto labile (in diversi miei scritti ho sostenuto che nella maggior parte dei casi essa è concettualmente impossibile) e consente che l’esito del giudizio sia influenzato in misura eccessiva dall’orientamento personale del giudice. È anche vero, però, che la norma indica in modo inequivoco il favor del legislatore per la soluzione indennitaria; e questo - producendo sicuramente un’influenza sul comportamento dei giudici - favorirà notevolmente la soluzione transattiva in termini economici, come accade in tutti gli altri Paesi europei. Voto: 7 – Peso pratico: 8 con tendenza a crescere per quel che riguarda le decisioni dei giudici 8. LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO PER SCARSO RENDIMENTO (art. 14, comma 7) – La nuova norma offre una protezione rafforzata contro il licenziamento motivato con la disabilità del lavoratore, quando questa non sussista o non incida in modo rilevante sulla performance, oppure quando la persona disabile sia ritenuta diversamente utilizzabile in azienda. In questo caso, il giudice che ritenga il licenziamento non giustificato deve condannare il datore alla reintegrazione e all’indennizzo fino a un massimo di 12 mensilità. Stesso discorso per il caso del licenziamento del lavoratore malato, quando non sia stato superato il periodo di comporto (qui forse sarebbe stato più logico mantenere la sanzione attuale dell’inefficacia del licenziamento fino allo scadere del comporto). Non viene, però, affrontata la questione importante e delicata del licenziamento per scarso rendimento non dipendente da disabilità o da malattia in fase acuta: qui la soluzione che combina nel modo di gran lunga migliore equità ed efficienza sarebbe quella dell’indennizzo come filtro automatico delle scelte aziendali, modulato in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore e dovuto in tutti i casi in cui il datore abbia l’evidenza del difetto di rendimento ma non ritenga di poter sostenere o dimostrare la negligenza. Senonché il caso del licenziamento del low performer non affetto da infermità non viene contemplato nella nuova norma, col risultato di un elevatissimo grado di incertezza circa l’esito del possibile giudizio. Voto: 4 – Peso pratico: 8 9. LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO (art. 15) – La nuova norma disattiva una trappola procedurale che negli ultimi vent’anni ha causato l’annullamento di moltissimi licenziamenti collettivi (comma 1) e consente opportunamente che vengano sanate mediante accordo sindacale al termine della procedura di esame congiunto preventivo gli altri vizi procedurali (comma 2). Dispone però la sanzione più severa – reintegrazione più indennizzo – per le irregolarità procedurali non sanate (con disparità di trattamento delle stesse rispetto al caso del licenziamento individuale: v. sopra, § 6) e per la violazione dei criteri di scelta fissati dall’articolo 5 della legge n. 223/1991, che regola la materia. Ora, si dà il caso che quei criteri di scelta siano formulati in modo da consentire tutte le interpretazioni possibili, con la conseguente estrema aleatorietà dell’esito del giudizio in proposito. Logica avrebbe voluto, invece, che qui si applicasse la stessa sanzione di natura indennitaria di cui il comma 7 dell’art. 14 prevede l’applicazione nel caso di insufficienza del motivo oggettivo. Intendiamoci: non che questa nuova norma peggiori le cose sul terreno dei licenziamenti collettivi; ma neppure le migliora in coerenza con l’intendimento generale del provvedimento. Voto: 4 – Peso pratico: 5 10. LA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO GIUDIZIALE IN MATERIA DI LICENZIAMENTO (artt. 16-21) – Si delinea un procedimento speciale per le controversie in materia di licenziamento, con due novità di rilievo: a) l’istituzione di una sorta di primo grado di natura cautelare, modellato sul procedimento per la repressione della condotta antisindacale (art. 28 St. lav.), che si aggiunge normalmente ai due gradi di merito; b) l’istituzione di una corsia privilegiata rispetto a tutte le altre cause di lavoro. Bene questo secondo punto; sul primo sorgono invece notevoli perplessità. Innanzitutto, il procedimento cautelare già esiste (art. 700 c.p.c.) ma non è obbligatorio; e gli uffici giudiziarii più efficienti tendono a scoraggiarlo, offrendo alle parti un primo grado davvero rapido; in questi uffici, la nuova procedura costituirà per questo aspetto un appesantimento invece che uno sveltimento. In secondo luogo va detto che sovente l’accertamento circa il motivo del licenziamento è molto più complesso rispetto all’accertamento del comportamento antisindacale, non prestandosi pertanto a istruttorie sommarie; e negli uffici giudiziari meno efficienti vi è un alto rischio che al provvedimento cautelare adottato in tempi brevi senza una adeguata istruttoria seguano anni di attesa prima della sentenza di merito di primo grado. La nuova disciplina processuale assumerebbe tutt’un altro significato pratico se – molto ragionevolmente – si stabilisse che l’ordinanza con cui si conclude la fase cautelare iniziale può disporre in via provvisoria la reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice ravvisi la discriminazione o comunque un motivo illecito del licenziamento, mentre negli altri casi, in attesa della sentenza di merito, l’ordinanza cautelare può disporre soltanto il pagamento di una provvisionale: ciò che sarebbe coerente con l’intendimento generale del disegno di legge, nel senso di individuare come sanzione ordinaria per il difetto di giustificazione del licenziamento quella indennitaria, rispetto a quella reintegratoria. Voto complessivo: 5 – Peso pratico: 8 11. GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI (artt. 22-52) – Quella sul riordino degli ammortizzatori sociali è la parte più ambiziosa del disegno di legge, dopo quella sui licenziamenti: mira a istituire un’assicurazione contro la disoccupazione tendenzialmente universale (ASpI) destinata ad assorbire tutte le precedenti assicurazioni settoriali, riconducendo la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria (ed evitandone l’utilizzazione per mascherare situazioni di sostanziale disoccupazione). Avrei preferito che anche una parte del costo del licenziamento per l’impresa venisse destinata a un trattamento complementare di disoccupazione: ci arriveremo alla prossima tappa. Voto complessivo: 7 – Peso pratico: in partenza 5, tendente a 9 o 10 nei prossimi anni, via via che la riforma andrà a regime 12. L’ASSISTENZA AL LAVORATORE DISOCCUPATO (artt. 59-63) - Meno apprezzabile è la parte del disegno di legge nella quale si passa dalle politiche del lavoro passive a quelle attive. Qui si enuncia la necessità che al lavoratore venga offerta un’assistenza adeguata per il reperimento della nuova occupazione; ma non si individua la “copertura amministrativa” di questa disposizione: in particolare, non si individuano gli incentivi che possano trasformare un’amministrazione fin qui molto inefficiente in questo campo in una produttrice di servizi di buona qualità. Il trattamento economico di disoccupazione viene sottoposto alla condizione della disponibilità effettiva del lavoratore per tutto quanto necessario al reperimento e occupazione del nuovo posto; ma il meccanismo appare ancora formalmente e sostanzialmente burocratico: non si capisce bene perché questa regola che fino a oggi non ha funzionato dovrebbe incominciare a funzionare per effetto della nuova norma. Voto: 4 – Peso pratico della norma: 3 13. E LE DISPOSIZIONI SULLE COLLABORAZIONI AUTONOME (artt. 8 e 9)? - I lettori si chiederanno perché in questa scheda siano state saltate le disposizioni del disegno di legge contenenti le norme di contrasto all’abuso delle collaborazioni autonome. Se queste disposizioni si fossero accompagnate alla terz’ultima versione della riforma della disciplina dei licenziamenti proposta dal ministro Fornero (quella, per intenderci, di cui si è discusso nella seconda metà di marzo), la mia valutazione di merito si sarebbe espressa in un voto 8, con peso pratico 9 (un voto ancor migliore avrei espresso a seguito di alcune correzioni volte a discernere meglio le collaborazioni autonome fasulle da quelle genuine: per esempio con una sorta di graduazione inversa della presunzione di dipendenza al crescere del livello del reddito del collaboratore). Ma ora di quelle disposizioni è stata rinviata l’applicazione di un anno; e forse in realtà è un rinvio alle calende greche. Non si stenta a comprendere questo rinvio. Perché la conversione in rapporti di lavoro normale, dall’oggi al domani, di molte centinaia di migliaia di collaborazioni autonome è pensabile soltanto se il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato viene reso molto più flessibile e appetibile per le imprese di quanto non facciano le norme contenute in questo disegno di legge (soprattutto in seguito agli ultimi aggiustamenti che hanno ridotto l’incisività della nuova disciplina dei licenziamenti).
La realtà è che Pd e Cgil, premendo per questi aggiustamenti, hanno accettato esplicitamente di rinunciare alla grande operazione di riassorbimento di quelle centinaia di migliaia di collaborazioni autonome fasulle nell’area di applicazione del diritto del lavoro. Ne abbiamo conferma anche in una dichiarazione del responsabile nazionale Pd per l’economia, Stefano Fassina, riportata dal Corriere della Sera dell’8 aprile: “[Emma Marcegaglia] ha detto cose di buon senso. Non si riesce a combattere la precarietà se si aumenta il costo del lavoro per le imprese [...]. Ha ragione su due punti: la contribuzione aggiuntiva sui contratti a tempo determinato e la trasformazione ex lege delle committenze prevalenti. Va anche ridotto l’aumento dei contributi pensionistici per i lavoratori parasubordinati”. Con tanti saluti alle conclusioni dell’Assemblea programmatica tenuta dal Pd a Genova nel 2010, che puntavano tutto sull’aumento del costo del lavoro precario rispetto a quello subordinato regolare a tempo indeterminato. Accontentiamoci, dunque, per ora, di un passo avanti sulla materia dei licenziamenti e su quella dell’universalizzazione e riordino del trattamento di disoccupazione, che almeno ci riavvicina al resto d’Europa per questo aspetto. Sperando che l’intervento di “manutenzione” dell’articolo 18 produca, per ora, almeno l’effetto di ridurre l’incentivo all’abuso delle collaborazioni autonome.