Pietro: “Siete tutti invitati a casa del boss!”

Creato il 20 luglio 2012 da Tipitosti @cinziaficco1

“Quando realizzi qualcosa al Sud, le difficoltà si moltiplicano, ma la voglia di contribuire alla crescita della propria terra per me è sempre più importante di tutto quanto il resto”.

A parlare così è Pietro Nardiello giornalista free lance, scrittore, organizzatore di eventi, che ha deciso di devolvere i diritti d’autore del suo libro “Il Festival a casa del boss”, Phoebus edizione, ad un’associazione di Scampia, per aprire un ristorante pizzeria e dare lavoro a ragazzi. Il testo, pubblicato di recente, altro non è che la storia del cosiddetto Festival dell’Impegno Civile, http://www.festivalimpegnocivile.it/ ideato proprio da Nardiello. Si tratta dell’unica esperienza italiana, realizzata nei beni confiscati alla camorra.

Ci dice qualcosa di più? E come è nata l’idea?

Ho scritto il progetto del Festival dell’Impegno Civile per conto del comitato don Peppe Diana, che mi chiese di scrivere un progetto nel luglio del 2007, utile a mettere in rete i giovani del territorio con i circuiti artistici nazionali. Questo per dare luce alle eccellenze di un territorio conosciuto solo come terra di camorra.

Avrà attinto da altre esperienze!

Per quanto riguarda i principi fondamentali, beh li ho pensati, ispirandomi alle parole, al pensiero e all’opera di don Peppe Diana, a cui il festival è dedicato. Per quanto riguarda le location – i beni confiscati alla camorra – ci ho pensato, perché si tratta di un mio pensiero, oltre che culturale anche pratico.

E cioè?

La cultura può esprimere le sue potenzialità in luoghi ameni e non deputati a ospitare salotti come le periferie, le piazze e le  strade. I centri, in cui ha mosso i primi passi il festival, Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa  non hanno luoghi, dove l’architettura possa consentire la collocazione di una messa in scena teatrale o altro. Per questo i beni confiscati, come ville, terreni e quant’altro potevano rappresentare la location ideale per fare ciò. Non solo.  Questo avrebbe dovuto rappresentare una risposta al malaffare, che aveva ricavato quelle strutture, alimentando l’economia illegale.

Niente di simile all’estero?

All’estero non esistono ancora le confische, mentre in Italia non c’è una rassegna itinerante simile.

Chi l’ha aiutata?

Ripeto, ho scritto questo progetto per il Comitato don Peppe Diana, poi ho messo su la struttura artistica e organizzativa, avvalendomi dell’aiuto di associazioni e cooperative dei territori. Loro hanno pensato a trovare fondi e a collaborare nel completamento del progetto.

Nessuna difficoltà?

Rispondo a questa domanda, invitando i lettori di questo blog a leggere il libro, in cui racconto i retroscena. Comunque, le dico che gli ostacoli maggiori li hanno posti soprattutto coloro che si schierano nell’antimafia, i sindaci che, come abbiamo letto successivamente in un’ordinanza di custodia cautelare, rispondevano alle disposizioni dei boss.

Un’affermazione pesante. E lei come ha reagito?

Hanno fatto quadrato intorno a me, i miei amici, quelli che hanno collaborato alla
realizzazione del festival.

La difficoltà maggiore?

Mi sono scontrato con alcune persone, che fanno dell’antimafia la propria ragione
lavorativa e di vita.

Ci sono stati momenti, in cui ha deciso di mollare tutto? E poi?

Quando realizzi qualcosa al Sud le difficoltà si moltiplicano, ma la voglia di contribuire alla crescita della propria terra per me è sempre più importante di tutto quanto il resto.

Torniamo al festival

Si tratta dell’unico festival, che si svolge esclusivamente nei beni confiscati alle associazioni malavitose con incontri, dibattiti, concerti, presentazioni di libri, degustazioni e altro. E’ nato in provincia di Caserta, ma siamo riusciti a portarlo anche a Napoli  e ad Avellino. Mi dispiace non essere riuscito ad organizzarlo anche nel Beneventano e Salernitano.

Perché l’iniziativa non ha toccato quelle zone?

Lo scrivo nel libro. Le istituzioni locali hanno preferito eludere le nostre richieste.

Il festival ha raggiunto le cinque edizioni. Quanti ospiti avete avuto? Quanto è stato seguito?

Io ho seguito il festival per le prime quattro edizioni, poi l’ho lasciato. In realtà non per mia volontà. Rimando al libro. Per quanto riguarda gli artisti intervenuti, ne nomino solo alcuni, sperando di non far torto agli altri. Da Peppe Barra a Ulderico Pesce, da Nello
Mascia a Patrizio Trampetti, e poi Antonella Morea, la Nuova Compagnia di Canto
Popolare, l’Orchestra Popolare Casertana, gli A 67 e poi Carlo Faiello
, con il quale ho messo su una band musicale. I componenti sono giovani di questi territori. Il pubblico è aumentato con il tempo, fino a quando in alcuni luoghi si è cominciato a respirare aria di festival, aria di festa.

Sono serviti tanti soldi per realizzarlo?

La prima edizione l’abbiamo realizzata con ventimila euro. Le altre con trentamila. Questo è un altro punto, che ha dato molto fastidio a chi gestisce milioni di euro per la gestione e la ristrutturazione di beni confiscati. Basta poco per fortificare le idee importanti  e avere riscontro e successo.

Due parole sul libro. 

Il libro “Il Festival a casa del boss”, pubblicato dalla casa editrice Phoebus di Casalnuovo, nasce innanzitutto da una mia esigenza: raccontare tutta questa storia, sicuramente inedita nel panorama della bibliografia di genere pubblicata negli ultimi anni. Poi ho creduto opportuno approfondire tanti argomenti, quindi utilizzare la cronistoria del festival come un pretesto per approfondire tematiche importanti, che vanno dalla politica alla cultura. Non è un caso che in occasione di molte presentazioni abbiamo discusso di questi argomenti più che del libro.  E così faremo quando, a settembre, riprenderemo il tour.  Aggiungo una cosa.

Prego!

I volume è arricchito da alcune interviste di giornalisti, che hanno partecipato al Festival, come: Vito Faenza, Stefano Corradino,  Francesca Ghidini, Michela Monti, Armida Parisi e Mariagrazia Poggiagliolmi, che intervistano rispettivamente: Isaia Sales, Cafiero De Raho, Lello Magi, Antonietta Rozera, don Aniello Manganiello e Peppe Barra, tutti intervenuti in diverse occasioni a questa rassegna. Chiude il ciclo delle interviste e il libro quella realizzata da Valeria Palumbo a don Peppe Diana. Solamente una donna poteva e doveva assumersi una responsabilità del genere dopo le tante polemiche piovute su don Peppe.

I diritti d’autore  di questo libro serviranno ad aprire un ristorante. Saranno devoluti ad un’associazione di Scampia. E’ così?

Ritengo che l’impegno civile non debba essere una professione, ma qualcosa da svolgere con professionalità. Per questo motivo ho deciso di contribuire alla realizzazione di un ristorante pizzeria – sociale, che nascerà a Scampia, all’interno di una scuola abbandonata dall’Associazione (R)Esistenza anticamorra coordinata da Ciro Corona. In questo ristorante lavoreranno ragazzi del quartiere, giovani in attesa di giudizio e chi dovrà scontare pene alternative al carcere. Purtroppo il Comune di Napoli non ha ancora concesso questa struttura, che l’associazione vorrebbe ristrutturare con fondi propri. Siamo in attesa. 

Il ristorante rappresenta un punto di partenza per una rivoluzione. Ma non pensa serva altro?  Cosa si aspetta dai cittadini di Scampia e dalle istituzioni locali?

Se non si offrono prospettive pulite di lavoro non potrà esserci alcun seguito a una rivoluzione culturale, che ci deve consentire di cambiare la classe dirigente, far approvare delle leggi più giuste in Parlamento. Non parliamo di legalità, si tratta di una parola di cui si è abusato troppo fino ad ora. E’ necessario parlare di giustizia.

  Cinzia Ficco


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