Pirateria in Somalia: la Tortuga del nuovo millennio

Creato il 23 luglio 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Matteo Guillot

Agli appassionati di letteratura parlare di pirati richiamerà alla memoria Robert Louis Stevenson ed il suo capolavoro L’isola del tesoro, o i tanti romanzi di Emilio Salgari. A chi invece negli ultimi anni ha preferito il cinema, non può mancare l’immagine di Johnny Depp nei panni di Jack Sparrow. Ai più, se non fosse forse per le vicende dei due Fucilieri trattenuti in India di cui ogni tanto si parla, non verrebbero in mente posti lontani e caldi come le coste della Somalia, il Golfo di Aden o le profondità dell’Oceano Indiano. Eppure qualche anno fa capitava che i media riportassero notizie di navi assaltate e sequestrate, raccontando poi di oscure trattative e riscatti sempre negati dopo il rilascio. Cos’era quel fenomeno? Cosa è oggi e soprattutto, cosa sta diventando? La pirateria così come l’abbiamo conosciuta nei romanzi racconta di navi armate da ciurme di banditi che depredavano galeoni e bastimenti dei loro carichi preziosi, rispettando tuttavia un loro codice d’onore ed ammantati da un’aura di romanticismo tanto affascinante da portare invariabilmente a fare il tifo per loro. La realtà, come sempre, è un’altra cosa. Profondamente diversa.

Dal primo sequestro riportato nelle acque somale nell’aprile del 2005 ai danni del mercantile battente bandiera di Hong Kong Feisty Gas, la pirateria al largo della Somalia è cresciuta, si è sviluppata e poi è mutata in funzione del contesto, con l’efficienza e la spregiudicatezza che contraddistingue un’industria multimilionaria all’interno del suo “mercato” di riferimento. Quel primo episodio costò alla compagnia armatrice 315mila dollari di riscatto e da allora le cifre sono continuamente cresciute, raggiungendo l’apice nel 2012 con gli oltre 9,5 milioni di dollari pagati per il rilascio della petroliera greca Smyrni ed i suoi 26 membri di equipaggio. Un report della Banca Mondiale dell’aprile 2013 stima che nel periodo 2005-2012 siano stati pagati in media riscatti per un totale di circa 53 milioni di dollari all’anno.

Una tipica operazione di pirateria coinvolge uno o più skiffs, affusolati e velocissimi mezzi lunghi non più di 5 metri dotati di potenti motori fuoribordo. A bordo un equipaggio di nemmeno una decina di persone, che armato tipicamente di kalashnikov e spesso RPG (lanciagranate) conduce l’abbordaggio mediante rampini e scale uncinate. Con un simile approccio i primi assalti sono stati condotti perlopiù vicino costa, in prossimità di Capo Guardafui – l’estrema punta orientale della Somalia che costituisce il Corno d’Africa – o nel golfo di Aden, data la sua limitata estensione. Quando l’area è stata progressivamente presidiata e posta sotto il controllo di forze navali provenienti da tutto il mondo, l’industria piratesca si è evoluta. Ricorrendo a navi madre (spesso grossi pescherecci o dhow sequestrati a tale scopo durante il loro transito in prossimità delle coste somale), i pirati hanno progressivamente esteso il loro raggio d’azione. Nel 2012, la superficie interessata dal fenomeno copriva un’area di oltre 4 milioni di km quadrati: ben al di là delle acque territoriali somale e di fatto infestando l’intero Oceano Indiano.

Nel corso degli anni sono state sequestrate con successo 149 navi, coinvolgendo 3741 membri di equipaggio di 125 diverse nazionalità e periodi di prigionia lunghi anche fino a quasi 3 anni. Un numero imprecisato di questi, stimato tra 82 e 97, ha perso la vita nel corso dell’attacco o durante il periodo di detenzione, a causa delle pessime condizioni di vita.

La pirateria somala, tuttavia, non ha avuto un duro impatto esclusivamente sulle persone o le compagnie armatrici direttamente coinvolte. Nell’area i commerci sono diminuiti ad un tasso di oltre il 7% l’anno e la pesca ed il turismo, i due pilastri su cui si basano le economie locali di Paesi quali ad esempio Kenya, Madagascar o Seychelles, hanno entrambi segnato un declino di oltre il 23% dall’insorgere del fenomeno. A fronte di riscatti incassati che come detto in media oscilla annualmente intorno ai 53 milioni di dollari, la pirateria costa a Paesi già poveri percentuali rilevanti di PIL. Su scala globale il fenomeno comporta perdite che la Banca Mondiale stima pari all’iperbolica cifra di 18 miliardi di dollari all’anno.

L’aspetto economico congiuntamente al pericoloso legame con le milizie islamiche di al-Shabaab ha creato una crescente preoccupazione in diversi angoli del Pianeta. Per fronteggiare il problema attualmente sono infatti oltre 40 i Paesi coinvolti in varia misura in operazioni di anti-pirateria.

L’Unione Europea dal 2008 ha istituito EUNAVFOR (European Naval Force) Somalia, che conduce senza soluzione di continuità l’Operazione Atalanta; la NATO dal 2009 dispiega nell’area, anch’essa ininterrottamente, a rotazione uno dei sue due Standing Naval Maritime Group nell’ambito dell’Operazione Ocean Shield. Sempre in ambito multinazionale opera anche la Combined Task Force 151, originariamente creata con scopi anti-terrorismo nel Golfo Persico e sempre più coinvolta nel contrasto alla pirateria. In aggiunta, singoli Paesi tra cui Cina, India, Russia e Giappone mantengono stabilmente delle proprie forze navali. Il coordinamento tra i vari attori presenti ha raggiunto nel tempo un livello di integrazione e cooperazione impensabile e senza precedenti.

L’Italia, dal canto suo, ha sempre avuto una particolare sensibilità per l’area che nella dottrina geopolitica è comunemente nota come “Mediterraneo allargato”. In particolare, salvaguardare la libertà dei traffici marittimi che dall’Oceano Indiano attraverso il Mar Rosso ed il canale di Suez sboccano nel Mare Nostrum significa salvaguardare uno dei più strategici interessi nazionali in termini economici. A sottolineare il continuo impegno nazionale il 20 giugno ha fatto rientro nella base navale di Taranto, dopo oltre 200 giorni di attività, l’unità della Marina Militare San Marco che per quasi sette mesi è stata nave ammiraglia della missione NATO Ocean Shield, posta sotto guida ed il comando italiano. Nel corso del 2012, da agosto a dicembre, anche l’operazione dell’UE Atalanta era stata a guida italiana.

Oltre agli sforzi militari, tuttavia, le stesse compagnie di navigazione hanno progressivamente sviluppato espedienti e tattiche per arginare il problema. Cominciando dall’adottare tecniche cinematiche aggressive come alte velocità e manovre repentine quando poste sotto attacco, le navi mercantili sono oggi dotate di complessi sistemi di auto protezione: idranti ad altissima pressione, recinti fuoribordo di filo spinato o elettrificati, cittadelle fortificate entro cui i membri dell’equipaggio possono rifugiarsi dopo aver inviato l’SOS in attesa di un intervento di soccorso. Non ultimo, imbarcare nuclei di guardie armate capaci di respingere un tentativo di abbordaggio.

A fronte di tanto impegno, il 10 maggio la comunità marittima ha festeggiato un anno dall’ultimo assalto condotto con successo dai pirati somali. Rispetto al picco del 2011, quando gli attacchi toccarono quasi i 250 episodi ed oltre 750 persone erano tenute in ostaggio, la prima metà del 2013 si è conclusa con 9 tentativi di abbordaggio e 68 prigionieri confermando il trend positivo registrato già nel 2012. Per la prima volta l’International Maritime Bureau (IMB, il massimo ente preposto al monitoraggio ed alla prevenzione dei crimini perpetrati in mare) a giugno ha rilasciato un report in cui il numero di incidenti è stato superiore nell’Africa Occidentale, al largo delle coste nigeriane, rispetto a quanto accaduto nel bacino somalo.

Sebbene secondo molti analisti la pausa nelle attività dei pirati potrebbe essere ascritta alla necessità di ridurre il numero di ostaggi e navi tenute in ostaggio prima di riprendere, la somma delle contromisure messe in campo ed esposte in precedenza hanno senza dubbio esponenzialmente aumentato i rischi per i pirati stessi, diminuendone al tempo stesso le chance di successo in modo altrettanto sensibile.

Se pertanto la strategia messa in campo dalla Comunità Internazionale sembra essere stata vincente, di fatto non è così. Mantenere stabilmente un simile massiccio dispiegamento di forze nel lungo periodo è semplicemente insostenibile. Sia Atalanta che Ocean Shield sono previste solo fino alla fine del 2014, ed il loro costo ha già superato il miliardo di dollari per i Paesi partecipanti. Analogamente, le compagnie armatrici che transitano nell’area affrontano spese altissime (si pensi anche alle assicurazioni) che incidono profondamente sui loro margini di guadagno.

Ciò che la Banca Mondiale suggerisce, seguendo in scia le strategie già messe in opera sul campo dai comandanti militari impegnati nelle operazioni, è uno spostamento del focus dai perpetratori del crimine ai loro sostenitori a terra. Se infatti armare un paio di barche non comporta particolari difficoltà, tutt’altra cosa è ancorare liberamente una nave a poche centinaia di metri dalla costa, garantire che nessuno tenterà di liberarla, assicurare rifornimenti e quanto necessario alla vita tanto dei prigionieri quanto dei guardiani per periodi che come detto raggiungono anche i tre anni, condurre trattative a livello internazionale per il raggiungimento di un accordo. Ciò che costituisce il cuore dell’industria piratesca è la struttura logistica, finanziaria ed amministrativa dell’intera organizzazione.

Il business model di fatti prevede che una percentuale compresa addirittura tra il 70 e l’86% del riscatto incassato venga speso per comprare governanti locali corrotti e compiacenti, leader religiosi, milizie potenzialmente antagoniste, fornitori di cibo e armi, etc. I pirati, quelli che poi vanno per mare assumendosi rischi enormi e che dal 2005 si stima siano morti a centinaia nelle acque dell’Oceano Indiano, portano a casa una frazione minima dei profitti che le loro operazioni generano. Eppure, in un Paese in cui il reddito pro capite annuo non raggiunge i 140 dollari, questa rappresenta comunque una somma enorme. Per questo motivo, dato che le operazioni di pirateria generano necessariamente un (relativamente) ricco indotto legato alle provviste, alla manutenzione delle imbarcazioni e a quant’altro necessario per esistere, le stesse comunità locali supportano i gruppi che le compiono e non manca la disponibilità di forza lavoro, costituita perlopiù da masse di disperati che masticano qat, la droga a basso costo diffusissima nel Paese che non fa sentire i morsi della fame.

La pirateria in Somalia è al tempo stesso sintomo e conseguenza dell’inesistenza di uno Stato centrale. Le aree del Somaliland (a nord), del Puntland (nord-est) e della Somalia Centrale sono di fatto poste sotto il controllo dei clan locali, totalmente fuori dalla giurisdizione di Mogadisho e del fragile governo. Più di molti altri, dal 1991 la Somalia è terra di nessuno, rappresentazione emblematica del concetto di failed State in cui i soli credo sono le armi ed il denaro.

Per arginare la pirateria, costringendola a terra fino a che non si abbasserà nuovamente la guardia, l’approccio finora seguito ha mostrato di dare i suoi (costosi) frutti. Per debellarla invece ciò che serve è strapparne via le radici, mirando una volta per tutte a ricostruire efficacemente un contesto istituzionale ed un Paese abbandonato ormai da troppo tempo in balia di se stesso e degli appetiti dei suoi vicini.

* Matteo Guillot è Ufficiale della Marina Militare e Dottore in Scienze Marittime e Navali (Università di Pisa)

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