Dalle due celebri piazze si passava in Lungarno, dove la poesia prendeva aspetto giocoso, nel cui genere meglio valevano i detti Chiarini e Baghéo.
Ed ecco che i Poeti, sino allora unisoni e concordi, divenivano rivali, e con tal garbo si rimbeccavano l’un l’altro, che gli ascoltanti ne andavano in visibilio. A ogni ottava, a ogni quartina, a ogni verso, piovevano i sali attici, le arguzie toscane, i frizzi fiorentini, facezie, equivochi, motti, proverbi, baie, frottole e riboboli da riderne a crepa pancia.
In tal guisa il tempo volava sì rapido, che non di rado l’aurora affacciata ai colli fiesolani, ci tirava a canestrate le rose per mandarci a letto. E a letto si andava senza aver bisogno del pastrano di Morfeo per coprirci gli occhi.
L’ ora, la stanchezza e le dolci variate immagini ben ci servivano di ninna nanna; e se pure un molesto pensiero assaliva i soavi riposi, era quello della Patria oppressa: ma la speranza colla crésta bianca, il grembiule rosso e la sottana verde, sedeva lì presso il capezzale, e raccontandoci le novelle, come la nonna ai nipotini, ci ravviava il sonno sulle gravi palpebre.
( Pirro Giacchi, “Reminiscenze notturne fiorentine” tratto da “Il Guazzabuglio ossia varietà di poesie e saggio di prose” , Firenze, 1875 )