Pitagora, Platone e Aristotele: inizia il “triello”. Da “Pitagora, Marx e i filosofi rossi”, Cap. I parte 2

Creato il 13 ottobre 2014 da Criticaimpura @CriticaImpura

Platone e Aristotele secondo Raffaello

Di ROBERTO SIDOLI, DANIELE BURGIO, LORENZO LEONI

Dal volume Pitagora, Marx e i filosofi rossi in via di pubblicazione.

CAPITOLO PRIMO, parte II

Pitagora, Platone e Aristotele: inizia il “triello”.

Prosegue dalla parte prima…

… Infatti la “linea meticcia” continuò il suo processo di sviluppo attraverso l’opera filosofico-politica di Platone, nella quale coesistevano una prevalente tendenza classista e una forte controtendenza collettivistica, dando origine a una particolare e suggestiva “contaminazione” dialettica tra le due opzioni e scelte di campo sociopolitiche.

Platone nacque ad Atene attorno al 428/427 a.C. da una famiglia nobile e facoltosa, passando presto al circolo filosofico-culturale che gravitava attorno alla figura di Socrate, di cui rimase un fedele discepolo fino a quando il suo maestro si diede la morte con la cicuta nel 399 a.C.: fatto traumatico che lo spinse a elaborare una teoria generale, allo stesso tempo filosofica e politica, per tentare di riorganizzare su basi nuove della società ellenica in cui operava. Dopo una serie di viaggi in Egitto e a Cirene, Platone si recò tre volte a Siracusa, il cui governo attorno al 390 a.C. “era tenuto dal tiranno Dionigi il vecchio, con la collaborazione del cognato Dione. Questi, uomo assai colto e amante della filosofia, aveva una grande ammirazione per Platone e sperava di poterlo utilizzare nella direzione politica della città. Ottenne da Dionigi di farlo invitare a Siracusa nel 390. Dopo qualche tempo, però, Platone cadde in disgrazia di Dionigi, venne cacciato dalla città e sbarcato ad Egina che si trovava allora in guerra con Atene. Qui venne venduto schiavo; e solo per intervento di amici che lo riscattarono poté ritornare in patria. Il secondo viaggio ebbe luogo nel 367, allorché, morto Dionigi il vecchio, gli successe il figlio Dionigi il giovane, e parve quindi aumentare l’influenza dello zio Dione. Fu di nuovo Dione ad invitare il filosofo ateniese, sperando (come ci narra lo stesso Platone) che egli sarebbe riuscito “ad ispirare al giovane nipote l’amore per il vivere onesto e virtuoso” e ad indurlo a compiere “senza stragi, senza condanne a morte” quelle riforme che si ritenevano indispensabili “per procacciare a tutto il paese la vera felicità”.  Questo secondo viaggio, però, non fu più fortunato del primo, e nel 365 Platone doveva tornarsene in Atene con l’animo pieno di amarezza. Al ritorno in Atene dopo il primo viaggio in Sicilia (e cioè nel 387), Platone fondò una scuola nel parco dell’eroe Accademo: l’Accademia che diventò uno dei massimi centri culturali dell’antichità, (venendo chiusa nel 529 d.C. dall’imperatore bizantino Giustiniano). Ad Atene, dopo il 387, “Platone trascorse tutto il resto della sua vita, salvo le brevi parentesi del secondo e terzo viaggio a Siracusa. Morì nel 347 all’età di 81 anni.

Iniziò la sua attività di scrittore un po’ prima del 395 con l’Apologia di Socrate, che fu una specie di manifesto con cui i discepoli dispersi vollero riscattare in Atene la fama del maestro, ingiustamente condannato. Dopo l’Apologia scrisse molti Dialoghi (che per fortuna giunsero intatti fino a noi) e alcune Lettere (Epistolài). Sugli uni e sulle altre sono sorte, da tempo, grandi controversie fra gli studiosi di Platone per deciderne l’autenticità e per stabilire il tempo della loro composizione. Qui basti ricordare che, fra le tredici lettere da noi possedute, pare probabile opera di Platone la settima, ricca di notizie autobiografiche in ispecie sui viaggi a Siracusa. Dei 34 dialoghi alcuni di scarsa importanza sono certamente spuri, mentre la maggior parte è senza dubbio autentica. Per il periodo della loro composizione, non si hanno notizie sicure; si sa soltanto con precisione che le Leggi (Nomoi) furono l’ultimo dialogo scritto prima della morte.”[1] Assieme ad Aristotele, Platone è diventato il pensatore che ha influenzato maggiormente la filosofia occidentale fino almeno all’inizio del Diciassettesimo secolo e per più di due millenni, mentre la sua concezione filosofica del mondo ha costituito la matrice principale dell’idealismo filosofico nell’area occidentale, basato simultaneamente sia su una teoria dell’anima che su una sofisticata teoria sulla centralità delle idee extramateriali.

Sotto il primo aspetto, nel “Menone” Platone enunciò il principio gnoseologico per cui non si può apprendere né ciò che si sa, né ciò che non si sa visto che nessuno cerca di sapere ciò che sa e nessuno può cercare di sapere, se non sa che cosa cercare riprendendo in modo creativo la tesi della scuola pitagorica, “a questo punto Platone introdusse la sua teoria della reminiscenza, secondo la quale quando un discepolo –opportunamente guidato da una maestro- trova in sé una verità razionale, l’atto da lui compiuto non costituisce un autentico acquisto, bensì una semplice reminiscenza. Egli ricorda ciò che aveva già appreso e che solo provvisoriamente ha dimenticato: ricostruisce un antecedente conoscenza, non apprende nulla di interamente nuovo. Ma, se è così, quando apprese tali conoscenze? Per rispondere a questa domanda, Platone è costretto a postulare la preesistenza dell’anima: prima dell’attuale vita, in cui l’uomo trovasi incatenato nella caverna del sensibile, egli ne ebbe un’altra, durante la quale le idee erano immediatamente presenti alla sua vista (non sensibile, ma intellettiva). L’esistenza nell’uomo di verità razionali diventa così, nelle pagine di Platone, un affascinante argomento per dimostrare la permanenza dell’anima attraverso varie vite (teoria, anche questa, di natura schiettamente pitagorica), e tale permanenza diventa a sua volta la prova fondamentale dell’immortalità dell’anima. Essendo dunque l’anima immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello degli inferi e ogni cosa, ha tutto imparato. Quindi non è strano che sia capace di ricordare quel che prima sapeva. Ed essendovi grande affinità e connessione fra le cose della natura, nulla vieta che l’anima, la quale ha tutto imparato, ricordando ogni cosa –il che si chiama imparare- trovi da sé stessa tutto il resto, quando uno sia intraprendente e non si stanchi di cercare. Il cercare e l’imparare in generale non è altro che ricordare . Per cercare di dimostrare sul piano razionale l’intera teoria dell’anamnesi e dell’immortalità dell’anima, Platone nella sua opera “Fedone” tentò di avviare anche il processo di determinazione della sua teoria delle idee, degli archetipi perfetti e immutabili. “L’immortalità dell’anima, necessaria a giustificare il compito della filosofia, è dimostrabile proprio sul fondamento della dottrina delle idee. Difatti l’anima è, come le idee, invisibile, e quindi, presumibilmente, anch’essa indistruttibile, inoltre, la reminiscenza è un’altra prova della sua immortalità in quando ne dimostra la preesistenza. Infine se si vuole intendere la natura dell’anima bisogna cercare di quale idea essa partecipi; e questa idea è la vita. Ma partecipando necessariamente di vita l’anima non può morire; e all’avvicinarsi della morte, non ne rimane vittima, ma si allontana senza subire danni e conservando l’intelligenza.”[2]

Per quanto riguarda la sua particolare concezione del mondo idealista, Platone non propose solo la categoria del Demiurgo – divinità che aveva a suo giudizio creato il mondo e la materia – ma altresì elaborò la teoria del mondo iperuranico e delle eteree, ma determinanti “Idee” in esso contenute. Nel suo dialogo “Fedro” Platone definì l’iperuranio quella zona al di là del cielo dove risiedono le idee e quel mondo posto, oltre la volta celeste che è sempre esistito, in cui risiedono le idee immutabili e perfette, raggiungibili solo dall’intelletto e non tangibili dagli enti terreni e corruttibili. A suo avviso le idee stanziate nell’iperuranio risultavano indispensabili per l’esistenza delle cose, mentre il rapporto tra le idee dell’iperuranio e le entità terrene possono essere di quattro tipi:

-   rapporto di mimesi: secondo questa concezione, gli oggetti terreni costituiscono delle semplici copie delle idee perfette ed immutabili;

-   relazione di metessi: in questo caso le cose partecipano all’esistenza delle idee;

-   rapporto di parusia: le idee sono presenti nelle cose e ne rappresentano l’essenza;

-   rapporto di aitia: le idee sono causa delle cose.

Dato che per Platone le idee dell’iperuranio risultano necessarie all’esistenza delle cose, di conseguenza si viene a creare una sorta di superiorità tra l’iperuranio e il mondo reale: oltre al maggior grado di perfezione presente nell’iperuranio, sussiste un primato di quest’ultimo sul mondo reale: visto che tale scelta rappresenta il modello secondo cui il Demiurgo ha formato il mondo delle cose e tutti i diversi processi materiali. Su questa base schiettamente idealista, nella quale le “Idee” iperuraniche diventarono sia la forza propulsiva dell’intero universo che la matrice originaria di ogni cosa, vivente e non, Platone elaborò la sua particolare e “sdoppiata” visione dei rapporti socioproduttivi e politici la sua personale utopia politica e sociale, destinata a essere ricordata, rielaborata o criticata anche nei due millenni successivi. Per Platone la comunità ideale, lo stato ideale deve essere governato dai filosofi e da “uomini sapienti”, il cui scopo fondamentale diventa quello di assicurare la “giustizia”: proprio nel suo scritto più celebre, la Repubblica, partendo dalla sua teoria sulle idee e gli archetipi perfetti, Platone effettuò un notevole sforzo intellettuale per elaborare una teoria dello stato giusto perfetto e capace di fungere da modello per la società greca di quel tempo che aveva al suo centro l’idea di giustizia. Secondo il geniale filosofo greco, nessuna comunità umana può riprodursi senza tale categoria e norma politico-sociale, e all’istanza sofistica che vorrebbe ridurla al diritto del più forte: Platone affermò infatti che neppure una banda di briganti o di ladri potrebbe conservarsi, se i suoi componenti violassero le norme della giustizia l’uno a danno degli altri.

“La teoria delle idee permette a Platone di condannare, in nome dello stato perfetto, tutti gli stati imperfetti di cui il mondo terreno ci offre i più vari esempi. Questi traggono la radice della loro intrinseca imperfezione dal considerare soltanto la parte estrinseca e peritura dell’uomo, trascurando ciò che vi è in lui di superiore ed eterno. Evidentemente la decisa condanna pronunciata da Platone riflette la sua profonda sfiducia di fronte alle forme assunte della vita organizzata del suo secolo, forme tali da scoraggiare ogni intervento dell’uomo colto nella vita dello stato. Platone però reagisce a questo stato di fatto in un modo diverso da Democrito: mentre l’abderita abbandona la lotta per rinchiudersi in un individualismo sostanzialmente egoistico, l’ateniese invece si illude fino agli ultimi anni della sua vita di poter costruire in qualche luogo della terra il suo stato perfetto: non in patria, è vero, ma nella lontana città di Siracusa non più agendo –come Socrate- direttamente sui cittadini, ma agendo sul principe e sulla stretta cerchia dei suoi collaboratori. Il perno di quest’azione resta, comunque, di carattere socratico: si tratta infatti di educare gli uomini perché, solo se essi avranno raggiunto una piena consapevolezza della realtà, potranno costruire uno stato perfetto. In altri termini: si tratta di educare i reggitori dello stato, di portarli alla conoscenza del mondo delle idee; solo così essi potranno capire in che consista la vera felicità del cittadino, e organizzare lo stato in modo da procurargliela.

Quanto alla struttura della società perfetta, magistralmente delineata da Platone nella parte centrale del dialogo sulla Repubblica, basti ricordare che essa rifletti, idealizzandola, la concezione del vecchio partito aristocratico cui Platone apparteneva. È una struttura basata sulla più rigida distinzione di classi: in basso la classe dei lavoratori e commercianti, dedita alla produzione della ricchezza; al di sopra di essa la classe dei guerrieri e quella dei filosofi-magistrati, che hanno il compito di difendere e dirigere lo stato. I membri delle due classi superiori devono essere educati al più totale disinteresse e, proprio a questo scopo, debbono vivere in una specie di collettivismo, avendo in comune ogni proprietà, compresa la famiglia. Negli ultimi anni della sua vita Platone, sotto la pressione delle difficoltà incontrate nei vari tentativi di realizzare lo stato perfetto, sentirà la necessità di fare notevoli concessioni alle esigenze concrete dell’uomo, che vive nella storia. Ne sorse una concezione molto più moderata della politica, che si trova esposta nel dialogo sulle Leggi dove egli sostiene che la migliore costituzione è quella che risulta da una mescolanza della forma monarchica e di quella democratica; dove considera nuovamente la famiglia come condizione abituale dei cittadini, e propone per i governanti una educazione basata non più sulla dialettica e sulla dottrina delle idee, ma sulla geometria e sull’astronomia”.[3]

Come si può notare, una particolare “linea rossa” (autoritaria e basata sulla nouscrazia, sul potere politico attribuito agli intellettuali-filosofi) risulta ben presente all’interno del contraddittorio processo di elaborazione filosofico-politico del grande utopista Platone, seppur in posizione subordinata rispetto all’egemonia opzione classista seguita dal filosofo ateniese (i posteri tuttavia invertiranno spesso la scala di priorità, attribuendo una centralità “scandalosa” agli elementi comunisti presenti nel pensiero platonico). Secondo la visione di Platone, il processo di accumulazione di ricchezze tipico della società schiavista ateniese risulta infatti negativo e da condannarsi a priori, con un’ analisi che entra subito in contraddizione con le logiche fondamentali che regolano la dinamica delle società classiste, nel quarto secolo a.C. come ai giorni nostri, seppur con livelli diversissimi di sviluppo delle forze produttive e sociali e con relazioni parzialmente dissimili tra possessori delle condizioni di produzione e produttori diretti/lavoratori. In secondo luogo, come ricaduta diretta e come sottoprodotto immediato del suo anatema rispetto alla ricerca avida e affannosa e della ricchezza e dell’accumulazione privata, almeno per le due cosiddette “classi superiori” (i filosofi-governanti e i guerrieri) era prevista dal programma platonico l’assenza totale di proprietà privata, di ereditarietà dei beni e dei processi di accumulazione privata delle ricchezze e dei mezzi di produzione, oltre che un tenore di vita ascetico, mentre il sostentamento materiale dei due gruppi sociali egemoni veniva lasciato dal filosofo ateniese a carico della collettività; ed infine il ruolo e la posizione delle donne, assieme agli schiavi il “grande escluso” delle società elleniche, venne regolata dall’utopia platonica in modo egualitario rispetto al sesso maschile per quanto riguarda alla vita politica ed intellettuale.

Siamo in presenza di spunti “rossi” molto significativi e rilevanti, che per circa due millenni attirarono l’attenzione e alimentarono le fantasie di molti intellettuali occidentali rispetto a multiformi progetti di organizzazione della società, almeno in parte diversi dalle tradizionali strutture socioproduttive classiste, schiavistiche, feudali o capitalistiche: ma gli elementi e le controtendenze prevalenti all’interno del processo complessivo di elaborazione teorica-politica di Platone avevano un carattere classista assai marcato e inequivocabile. Innanzitutto non solo Platone non criticò mai la schiavitù per i non-greci, a differenza della famiglia e della posizione sociale delle donne, ma proprio nel nono libro della Repubblica, (578d2 seguenti), Platone fece affrontare al suo alter-ego e “avatar” Socrate il tema spinoso della schiavitù in via incidentale, senza metterla assolutamente in discussione.

Secondo Socrate/Platone, infatti, un padrone di schiavi esercita un potere assai simile di un tiranno su un gruppo di persone (= la forza-lavoro servile) che, per forza e per numero, potrebbe sconfiggerlo e rovesciare la schiavitù. Tuttavia notò sempre Socrate/Platone, il padrone non teme i suoi schiavi perché sa bene che l’intera collettività, l’intera polis ellenica riconosce e legittima il sistema socioproduttivo della schiavitù, ma viceversa ne avrebbe invece paura se un padrone di schiavi rimanesse solo con loro, o se invece i suoi vicini non tollerassero che qualcuno comandasse sugli altri (578d ss.). Questa è anche la situazione del tiranno, a capo di un regime cosiddetto illegittimo dai vicini e costretto continuamente a guardarsi dai concittadini che ha ridotto in schiavitù. Fra il tiranno – il governante più illegittimo che si possa immaginare – e il padrone di schiavi non sussiste alcuna differenza interna, e l’unica differenza è esteriore: i vicini del padrone di schiavi riconoscono la legittimità della schiavitù, i vicini del tiranno no. Ora, Platone condanna la tirannide, in quanto la rappresenta come illegittima:  qual è, invece, la legittimità della schiavitù?

L’analisi del testo suggerisce una risposta facile, e cioè che l’antropologia di Platone dà talmente per scontata la disuguaglianza fra gli uomini da non ritenere bisognosa di giustificazione l’opinione comune, e favorevole, professata dai “vicini” del padrone di schiavi”. Si deve in ogni caso evidenziare il forte disprezzo nutrito da Platone nei confronti dei “barbari”, e cioè delle etnie non greche dalle quali derivava buona parte della forza-lavoro servile utilizzata nel processo di produzione di Atene: nel suo dialogo “Menesseno”, il filosofo greco fece affermare esplicitamente al suo avatar-Socrate che era un vanto per un ateniese non aver alcun progenitore tra i fenici e gli egiziani, tra i cosiddetti “barbari” e i popoli inferiori. Nel quinto libro della Repubblica, inoltre, Platone negò la legittimità della schiavitù per gli “uomini greci” ma non certo per i “barbari”, contro i quali risultava invece a suo avviso giusto e necessario “rivolgersi contro”, secondo le sue esplicite affermazioni. Egli rivolse la domanda retorica su quale dovessero essere “i comportamenti dei nostri soldati verso il nemico”, e a tale interrogativo egli notò: “prima di tutto per quello che riguarda la possibilità di rendere schiavi degli uomini: sembra giusto che una città greca riduca in schiavitù uomini greci? Anzi questo dovremmo proibire anche agli altri Stati, per quanto è possibile, abituandoci a rispettare la stirpe greca, stando bene attenti a non esser fatti schiavi dei barbari.

Un tal rispetto – disse – è preferibile assolutamente.

Il nostro Stato, dunque, non possegga alcun schiavo greco, e lo stesso si consiglia agli altri Elleni!

Esattamente – disse – così si rivolgerebbero piuttosto contro i barbari e non si offenderebbero tra loro”.[4]

Nei confronti dei “barbari”, secondo Platone la guerra e la riduzione in schiavitù risultavano dei mezzi leciti e assai utili ai greci…

Come ha notato, D. B. Davis, nelle “Leggi” di Platone “i tentativi di distacco dai costumi ateniesi assunsero tutti una medesima direzione: quella, cioè, di accrescere l’autorità dei padroni e di rendere più netta la distinzione tra schiavi e uomini liberi. Secondo Platone, soltanto gli individui di stirpe straniera potevano essere ridotti in schiavitù: egli, infatti, ne vietava l’impostazione come castigo ai cittadini greci. Ed i primi erano condannati ad essere considerati esseri inferiori per sempre, in quanto la condizione di schiavo si ereditava sia dal padre che dalla madre. Lo schiavo emancipato era ancora obbligato a servire quello che era stato il suo padrone, e non esisteva alcuna protezione contro un eventuale, nuovo asservimento. Il liberto non aveva speranza di poter divenire un normale cittadino, dovendo egli lasciare lo Stato dopo un breve lasso di tempo. Anche se dovevano servire il governo come informatori, gli schiavi erano, per il resto, soggetti dell’autorità totale dei padroni, e non avevano alcuna difesa contro un trattamento crudele. Non potevano neppure avere una certa familiarità con la classe dei padroni, ed ogni persona libera aveva il diritto di giudicarli e punirli se commettevano qualche crimine, o di vendicarsi sommariamente di un affronto. [5]

Nella sua ultima opera, “Le Leggi” Platone riconobbe pertanto in modo esplicito la legittimità della schiavitù nella società ellenica, dimostrando ancora con maggiore evidenza la sua scelta di campo a favore dei rapporti sociali di produzione di distribuzione egemoni e dominanti nell’antica Grecia. Ma non solo: come è già stato sottolineato, l’eliminazione della ricchezza/povertà attraverso l’abolizione della proprietà privata anche nella “Repubblica” viene accompagnata e temperata da Platone con il pieno riconoscimento del legittimo possesso di beni e mezzi di lavoro a favore della “terza classe”, e cioè gli artigiani, contadini e mercanti.[6]

In sostanza Platone idealizzò, umanizzò e riprese in modo creativo l’antico modello spartano di organizzazione della società, fondato sul feroce sfruttamento degli iloti-schiavi da parte di una compatta (e tendenzialmente egualitaria) classe di proprietari della forza-lavoro servile, aggiungendovi le novità costituite dalla programmata egemonia della casta dei filosofi ed il ruolo paritario assegnato alle donne (non-artigiane e non-contadine): seppur contrastata da forti e originali spunti collettivistici, la tendenza principale all’interno dell’utopico stato immaginato da Platone risulta pertanto ancora principalmente di matrice classista, a differenza che in Pitagora e Diogene di Sinope. La “linea nera” in campo filosofico-politico iniziò a svilupparsi e decollare ad Atene e nel mondo ellenico attraverso l’elaborazione teorica di alcuni esponenti della scuola sofistica, tendenza filosofica non unitaria “sia perché i suoi maggiori rappresentanti non furono affatto discepoli l’uno dell’altro, sia perché essi espressero teorie fra loro diverse. 

Di poco posteriori ai filosofi (Talete, Eraclito, ecc.) interessati principalmente nell’ontologia, i sofisti “accentrano” le loro discussioni sul problema dell’uomo come cittadino, cioè dell’uomo che vive con altri uomini e tra essi deve far valer il proprio acume critico di spregiudicato ragionatore, la propria capacità realizzatrice, la propria convinzione morale. Non amano più indagare i grandi principi della natura, in parte perché scoraggiati dall’eccessiva varietà dei pareri in materia, in parte perché sospinti dall’urgenza di altri problemi più vivi e più concreti. Gli allievi a cui si rivolgono non costituiscono, come nelle vecchie scuole filosofiche, ristrette conventicole di studiosi che vogliono essere “iniziati” alla scienza, ma gruppi di giovani che sentono il bisogno di istruirsi al fine di perfezionare le proprie capacità di cittadini. Il nuovo tipo di cultura da essi affermato è uno dei frutti più caratteristici delle trasformazioni in atto nella società greca e, nel contempo, la causa di ulteriori sempre più radicali trasformazioni; è l’espressione di una profonda crisi, che si riflette nell’insegnamento sofistico come in quello socratico, e che solleverà contro l’uno e contro l’altro la resistenza più esasperata di tutti gli spiriti conservatori. Il nuovo tipo di insegnamento ebbe particolare successo in Atene al tempo di Pericle, perché seppe venire incontro alle esigenze emerse dalla caduta dell’antico regime aristocratico, per un lato trovando una giustificazione teorica, un fondamento ideologico al nuovo assetto sociale (analogo a quello che, per la società aristocratica, aveva rappresentato la poesia epica), per l’altro lato fornendo alla nuova classe dirigente gli strumenti necessari alla vita democratica. Vivere attivamente in democrazia significa partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far valere con efficace discorso la propria opinione frammezzo alle altre opinioni; e perciò saper pensare le varie accezioni e sfumature dei vocaboli, avere nell’orecchio le più felici espressioni dei  poeti, riuscire a disporre i periodi in un ordine che incateni l’attenzione, accenda le fantasie e susciti i consensi; significa insomma, possedere quel complesso di cognizioni grammaticali, lessicali, sintattiche, stilistiche, letterarie che costituisce l’arte dell’eloquenza. I sofisti furono appunto maestri di eloquenza, maestri di un’abilità (virtù) indispensabile al ceto dirigente, o che apriva le vie al successo nella vita politica.

Un sintomo assai significativo di questa nuova situazione ci è dato dall’uso, introdotto dai sofisti (non seguito però da Socrate), di tenere lezioni a pagamento. Si ricorda con un certo scandalo che alcuni sofisti riuscirono ad accumulare in questo modo notevoli ricchezze; va però osservato che, se ciò fu possibile, gli è evidentemente perché essi sapevano impartire un insegnamento ritenuto molto utile dai greci, e questo dispone a favore non solo della concretezza della loro intelligenza ma anche dell’elevato grado di civiltà della popolazione che era ormai in condizioni di apprezzare il valore della cultura”.[7] Tre autorevoli rappresentanti di tale (variegata) scuola, Trasimaco, Crizia e Callicle, concepirono la presunta “legge di natura” (laica) che doveva reggere i rapporti tra gli uomini semplicemente come “legge del più forte”, secondo la versione riportata sia da Platone che da alcuni storici dell’antichità.

Nella “Repubblica” di Platone si descrisse infatti un’accesa discussione che ebbe luogo a casa di Cefalo, un aristocratico facoltoso, in presenza di Glauco e Adeimanto, fratelli di Platone, e di Trasimaco, un sofista iroso. Socrate, che nel dialogo parla come avatar prestigioso di Platone,  domandò a Cefalo “qual’è, secondo voi, il maggior beneficio che avete tratto dalla ricchezza?”.

Cefalo rispose che la ricchezza per lui è un bene, principalmente perché gli permette di essere generoso, onesto e giusto; Socrate allora gli chiese che cosa egli intendesse per giustizia, egli è, distruggendo una dopo l’altra le definizioni che gli si offrono, finché Trasimaco, meno paziente degli altri, scoppiò “in un grido”. “Quale follia ti prende, Socrate? E perchè voialtri vi lasciate cadere in questo stupido modo ai piedi uno dell’altro? Io vi dico: se volete sapere che cosa è la giustizia, dovete rispondere e non domandare; né dovreste inorgoglirvi confutando gli altri… Poiché molti sanno domandare, ma non rispondere” (336 Repubblica). Socrate non si lasciò impressionare e continuò a porre domande, fino a riuscire a provocare l’incauto Trasimaco a compromettersi con una definizione, proclamando che “potere è diritto e la giustizia è l’interesse del più forte… I diversi governi dettano legge democratiche, aristocratiche, autocratiche, in vista dei loro rispettivi interessi; e queste leggi, fatte così da loro per servire ai loro interessi, le fanno passare presso i sudditi come giustizia, e puniscono come ingiusto chiunque le tradisca… parlo dell’ingiustizia in senso lato, e ciò che intendo dire risulta nel modo più chiaro nelle autocrazie, le quali, con la frode e con la forza, derubano gli altri delle loro sostanze, non al minuto, ma all’ingrosso. Ora, quando un uomo ha rubato il denaro dei cittadini e li ha fatti schiavi, invece che truffatore e ladro, è proclamato benemerito e glorificato da tutti. L’ingiustizia è condannata perché coloro che la condannano temono di soffrire, e non perché abbiano scrupolo di commettere ingiustizia essi stessi” (338-44). Venne pertanto teorizzata la “legge del più forte” mettendosi subito a fianco del potente del momento, più di due millenni prima del Nietzsche che affermava “In verità, ho riso più volte sui deboli, che si credevano buoni perché avevano gli artigli mozzati” (“Così parlò Zarathustra”) e del pensatore anarco-individualista M. Stirner, quando affermò che “un pugno di potere vale più che un sacco di diritti”: la continuità storica della “linea nera” in campo filosofico risulta fuori discussione, dalle sue lontane origini (Trasimaco) fino agli anarco-capitalisti del Ventunesimo secolo.[8]

In un’altra opera di Platone, il “Gorgia”, il sofista Callicie a sua volta ribadì che “la morale è un invenzione del debole per neutralizzare la potenza del forte e del dominatore del momento. A suo avviso, infatti, i deboli “distribuiscono lode e biasimo in vista dei loro propri interessi: dicono che la disonestà è vergognosa e ingiusta – intendo per disonestà il desiderio di possedere più del proprio vicino – poiché, consci della propria inferiorità, sarebbero anche troppo felici dell’eguaglianza… Ma se siete un uomo dotato di forza sufficiente” (entra in scena il “superuomo”), “egli scuoterebbe via dalle sue spalle tutto questo e se ne allontanerebbe per sempre; egli porrebbe sotto i piedi tutte le nostre formule e parole magiche e incantamenti, tutte le nostre leggi contro natura… Chi vuol vivere con sincerità dovrebbe permettere ai suoi desideri di ingigantire quanto più è possibile; ma quando essi fossero giunti alla massima misura, egli dovrebbe aver il coraggio e l’intelligenza di soddisfarli e appagar tutte le sue brame. Questo, io affermo, è la giustizia e la nobiltà naturale. Ma la maggior parte delle persone non sa far ciò, e biasima coloro che sanno farlo, perché si vergognano della propria incapacità, e desiderano nasconderla: perciò chiamano la sopraffazione bassezza… Essi rendono schiave le nature più nobili, e lodano la giustizia soltanto perché sono codardi”. Questa giustizia non è una morale da uomini, ma da lacchè; è una morale da schiavi, non da eroi; le virtù vere di un uomo sono il coraggio e l’intelligenza” (Platone,  “Gorgia”, 491).

Ma non solo. Nella sua opera “Sisifo”, il sofista Crizia giunse fino al punto di rilevare che anche gli dei e le divinità greche furono idee inventate e create ex-novo da qualche “sapiente” aristocratico come “instrumentum regni”, in qualità di utilissimo mezzo per tenere a bada la plebe ovviando  ai pesanti limiti della legge umana.[9] Il processo di descrizione filosofica-storica (e l’appoggio, più o meno esaltato), della “legge del più forte” venne ripreso anche dal geniale storico greco Tucidide, in due dei passi più densi di significato filosofico-politico della sua “Storia della guerra del Peloponneso”, riflettendo e difendendo a sua volta la politica imperialistica-schiavistica tenuta da Atene dopo il 480 a.C., con il (correlato) suo spietato trattamento nei confronti degli Stati più deboli. “Il vostro impero” – disse Pericle agli ateniesi nell’orazione che Tucidide gli mise in bocca – “è basato nella vostra forza più che sulla buona volontà dei vostri sudditi”.  Lo stesso storico riferì lo spietato messaggio utilizzato dai messi ateniesi per costringere gli abitanti dell’isola di Melo ad allearsi ad Atene, nella guerra contro Sparta: “voi sapete benissimo come noi che, da che mondo è mondo, la giustizia esiste soltanto tra eguali: i forti fanno ciò che possono, e i deboli sopportano ciò che debbono”. (“Storia della guerra del Peloponneso”, 105).

Tornando per ragioni di spazio al campo più prettamente filosofico, la “linea nera” trovò uno dei suoi principali campioni nel processo di elaborazione effettuato dal geniale Aristotele, durante il quarto secolo a.C. “Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira (colonia ionica nella penisola Calcidica). Suo padre, Nicomaco, era medico e amico del re di Macedonia; probabilmente fu lui stesso a insegnargli le prime nozioni di medicina e biologia; certamente ispirò al figlio, fin dagli anni della prima giovinezza, quell’atteggiamento filomacedone cui Aristotele rimarrà fedele per tutta la vita. A diciassette anni entrò nell’Accademia e vi rimase fino alla morte di Platone (cioè circa un ventennio). Era proprio in questo periodo che l’Accademia, sotto l’impulso dell’evoluzione del pensiero platonico che culminò nel Timeo, iniziava ad occuparsi di ricerche naturalistiche e veniva applicando il metodo diairetico agli esseri naturali. È probabile che, alla morte di Platone (347 a.C.), Aristotele sperasse di succedergli nella direzione dell’Accademia. Questa invece fu assunta da Speusippo, nipote di Platone (347-339), e poi Senocrate (339-314), che svilupparono, sotto influsso pitagorico, la teoria dei “numeri ideali” dell’ultimo Platone. Aristotele si decise perciò a lasciare Atene, insieme ad altri condiscepoli, per trasferirsi dapprima ad Asso (in Asia Minore), ove creò una specie di filiazione dell’Accademia, poi a Mitilene, fondando anche qui una scuola filosofica… Nel 335-334, morto Filippo e salito Alessandro al trono, Aristotele tornò ad Atene, ove, valendosi di notevoli sovvenzioni di Antipatro (che rappresentava gli interessi di Alessandro in Grecia), fondò una scuola, presso i giardini di Apollo Licio. Questo prese il nome Liceo, dalla località appunto dove era sorta, o anche di Peripato, dal viale che ne faceva parte e dove maestro e discepoli usavano passeggiare tenendo discussioni filosofiche. Durante tutto il regno di Alessandro, la scuola di Aristotele godette senza dubbio la protezione del grande condottiero e difese – pur con molte differenze su problemi specifici – gli interessi ideali della sua politica; come tale fu aspramente combattuta dal partito antimacedone di Demostene, che giunse ad accusare il filosofo di esercitare nella città un azione i vero e proprio spionaggio.

Nel 323 pervenuta da Atene la notizia della morte di Alessandro, la violenza dei suoi avversari si fece estremamente pericolosa e Aristotele si vide costretto a fuggire. Riparò a Calcide nell’Eubea, ove morì l’anno successivo (322 a.C.)”.[10] …

Prosegue nella parte terza…

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[1] L. Geymonat, op. cit., vol. primo, L’antichità – Il medioevo, p. 191-192
[2] Op.cit., p. 199-200
[3] Op. cit., p. 203-204
[4] Platone, Repubblica, libro quinto, 469. c, ed. UTET
[5] D. B. Davis, Lo schiavismo nella cultura occidentale, p. 96, ed. SEI
[6] N. Abbagnano, op. cit., vol. primo, p. 113
[7] Geymonat, op. cit., p. 88-89
[8] M. Bonazzi, I sofisti, p. 39-40
[9] Bonazzi, op. cit., p. 43
[10] Geymonat, op. cit., p. 210-211


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