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PITTURE NERE n.5: Marino Magliani, “Il collezionista di tempo”

Creato il 18 novembre 2013 da Retroguardia

Marino Magliani, Il collezionista di tempoMarino Magliani, Il collezionista di tempo, Sironi ed., 2007, pagg. 204, € 12,90

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di Lorenzo Muratore

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Mi rendo conto che in questa fuga tra gli scritti di Marino Magliani ho trascurato la pagina più sontuosamente spigliata ed evasiva: quella sul sonno della Liguria, che punisce, con le sue gocce preziose di silenzio, tanto la dolcezza triste che la sfida di chi ha avuto delle visioni celesti.

Ci sono finestre che non si accendono più, e rane che tacciono; e il mare è tutto quel buio…

Sarebbe stato possibile correggere il destino?

Forse, quando da un altro mondo una voce ti avesse avvertito.

Marino Magliani non rinunzia mai all’Almanacco. Egli ti dice che “il 3 agosto” alla tal ora.

Sa fin troppo bene che la vita senza il tempo – a parte certi attimi musicali – non è che la morte.

Il tempo, che è scandito sullo spazio circolare colle lancette dell’orologio, può anche però essere messo tra parentesi.

Ah, vagabondo, è il coraggio di Marino Magliani.

Ma è proprio quel coraggio che l’uomo comune percepisce quasi come follia. Il funzionario e Gregorio ne “Il collezionista di tempo” potrebbero anche accordarsi, come fra gente legata a una stessa catena, o che attinge al medesimo piatto; magari su quella forma di “minore” di utilità dello scrivere che è il “tradurre”.

Ma ammettere di scrivere crea un disagio.

C’è sempre l’imbarazzo, nell’idea di cogliere il frutto saporoso, che alle nostre anime apparve; e che è qualcosa come l’albero e la mela rinvenuta nella Bibbia.

Nel destino che si prepara non ci sono pensieri brumosi, se di là – nel mondo parallelo – c’è un amico che già sa tutto, e che, a rischio della propria vita, te lo comunica; e così ti toglie d’impaccio.

Ma, a quel punto:

- Come fa a essere al corrente della proposta che vogliamo farle? -

- Da un altro mondo, – parallelo, allusivo, possibile – mi hanno avvertito: attenzione che per non farti andare in vacanza ti proporranno un lavoro molto ben pagato. Hanno anche già trovato lavori che non ho ancora scritto… -

- Perché uno scrive? – gli chiede il funzionario.

- Io? Perché ho due mani sinistre; e perché soffro di vertigini; ed anche perché mi aggiro con un cartello legato al collo sul quale, c’è scritto a caratteri grandi INUTILE-

“Scirvo per vivere”, deve però infine concedere Gregorio.

Ed ecco allora il più ambiguo di tutti i verbi.

- La scrittura è ciò che mi permette di vivere, di alzarmi il mattino… La scrittura è ciò che per me una volta era la preghiera. -

- Però, insisto, per vivere ha bisogno del sussidio. -

Con la parola “vivere” appunto Gregorio ed il funzionario intendono due cose completamente differenti. Per l’uno è importante “sistemarsi”. Per l’altro solo la solitudine è importante e necessaria; ed avere molta infanzia dentro di sé. E nel futuro più lontano, averci qualcuno che ti avverta dei veri pericoli che colà già si conoscono.

E allora, da cosa nasce la letteratura? Non solo da una ostentata o deplorata mancanza di operosità: due mani sinistre, le vertigini, il cartello…

A potersi confondersi con le persone normali che si “guadagnano” da vivere, certo è un piacere. Ma talmente rischioso che – da un mondo parallelo e futuro – il suo amico lo avverte.

Egli non dice: – Scrivo, e quindi sono un incendiario. -

Sa di essere nei più profondi cieli dell’esistenza; e di dover tornare ai suoi sassi.

Una vacanza?, un periodo di pausa. O invece una disgiunzione violenta?

Gregorio non può restare in vita senza lo scrivere: la cosa è già “sentita”; ma come cosa ambigua, sfumata e plurale. È afferrata e vista per intero dall’amico Lukas, – nell’altra dimensione.

Gregorio non ne ha il “documento”, che invece è posseduto dall’amico che vive nel futuro. Ma, in tal caso, il documento – anzi il certificato di esistenza! -; se viene riafferrato e visto anche dal presente, diventa un monumento.

Persino il funzionario può ammettere che lo scrivere sia un servizio laico di culto.

Ma dove sono i boschi sacri? C’è solo una permanenza di cristallo, un cane. Ci sono degli esseri in sé così perfetti che quasi partecipano, in un certo senso, della perfezione di Dio.

Inoltre il funzionario è scolastico: una cosa esiste soltanto “se può essere insegnata”, e non se può essere retribuita; mentre per il creatore esiste soltanto ciò che non esiste ancora.

Così a Gregorio, ciò che egli stesso sta facendo gli è ignoto. Anzi gli “sarebbe” ignoto, se non glielo dicesse l’amico.

Come è potuto accadere di nascere e di morire come le foglie, consumati dalle cose immutabili, e vorrebbero lasciare dei segni; ed hanno la nostalgia di tuffarsi nel tempo indistruttibile? Forse c’è di che ribellarsi.

Il movimento che ha generato questa rivolta però non è inconsulto, ma sottile e paziente come l’arco dell’insidia e dell’ombra che ti separa da quel futuro.

Questo piccolo miracolo ti sottrae alla durata profana nella quale è immersa ogni esistenza umana.

Potenti guardiani proteggono il sacro abisso da cui esce tutto e in cui tutto ritorna.

“Il collezionista di tempo” ha fissato l’attimo e il luogo esatto, in cui sarebbe stato possibile mutare il corso delle cose, e scoprire l’anello, il punto, l’axis mundi del dio o del demone che tiene i fili della vita di ognuno.

Non è il disfacimento della razionalità, ma il desiderio di una ragione, quello che guida i passi dall’età che brama i sortilegi, e si illude e non vede quando contro alzano un muro – non di odio, ma di cose quasi desiderate -; e calano il filo a piombo; ed era come se da quel punto il cosmo esistesse solo attraverso il fruscio continuo dell’erba; e senza il minimo sforzo sarebbe stato ancora possibile disbrogliarsi; e rimanersi; e rimanersi nel quieto brusio dei boschi; dove si posa qualche suono più umano; dove le ore le suonano lente campane; e invece di volere staccarsi, e rimanere prigionieri della cartella di cuoio, come d’un esattore della altrui disperata volontà.

S’era messo in testa di andare in un collegio, per via di un sogno, un ritaglio di luce, che aveva fatto:

- i ragazzi che per morbidezza di tocco e palleggio erano campioni erano quelli che frequentavano il collegio -

Girar, quasi fugato suggello, batter la palla con bell’arte; il sogno gli abbozzava lontananza indistinte; e favole del vano.

Pensò a come non indovinava mai com’erano fatte realmente le cose.

Quel giorno avrebbe dovuto invece aggrapparsi ad un sasso e gridare: perché la Fata Morgana ti fa cavaliere dell’inesistenza; ed anche soltanto per addormentarsi doveva adesso ogni sera incontrare il proprio riflesso speculare che venisse da altri mondi in uno dei più bui cantoni.

Da quella occasionale beata terra nativa, il ragazzo fu reciso dai suoi mari profondi per entrare in arcani, che ai suoi pensieri soavi, alla fantasia vaga e gelatinosa della speranza, non apparivano allora così oscuri e tenebrosi.

E dunque addio “alle timidezze delle mattinate liguri che s’infilavano col contagocce nella valle, alla lenta resa del buio sotto i suoi portici”.

Nel denso cristallo dell’azzurro gli antichi finsero che quel Gallo dal rapace becco di fuoco ribollisse il suo verso mattutino per svegliare gli ingegni dei mortali.

È certo che quel gomitolo di piume nero-blu stendendo la notte le negre penne ci scuote dalla quiete del sonno.

Sopra i sacri incanti dell’aurora, getta la sua potente magia: la severa e distaccata felicità del meraviglioso risveglio; e quel demone ci scolpisce anche la verità annunziata in quella gigantesca forma oracolare; per cui l’anima nostra, riposata dalle fatiche, nello spazio del giorno nuovo, oltre a ritrovar pure aspettative gioconde, vedrà dal fondo, e timore e dolcezza salirgli al cuore.

Ma in questo primo esilio c’erano pochi istanti i cui passava qualche minuto quasi bello.

L’oscura difesa verticale era più alta di quanto non fosse lungo il legaccio al collo.

Poi, ecco, il nuovo ammanto intemerato ancora che la neve, rotta dalle grida dei corvi, ha caricato ai monti, come promesso; ma il tempo era come la neve che scendeva sulla neve d’ispide candide aeree spiagge, senza lasciare memoria.

Era il battito di mani che lo svegliava e il buio in cui si dorme senza sognare.

Bisognava collezionare il tempo, metterne insieme il più possibile.

Le cose il ragazzo aveva imparato a scordarle; stava lì a parlare alle decine di se stesso che abitavano ognuno il proprio mondo.

Erano i giorni brevi e rigidi dell’inverno, o quelli più lunghi dell’estate.

Pur lo consola, che la sorte d’un efficace antidoto provvide; o d’un compenso ingegnoso alla alienante disciplina delle ore esauste e vuote.

Quando, diversi anni dopo, emerse dal caos di brande disfatte di bersaglieri congedati, e una solitudine antica gli parlava di moli e di frontiere, quella medesima voce fu riudita.

Ma dove stava andando? Gli pareva di tornare alla paura di una notte, molto indietro nel tempo.

Sono pagine di alta costernazione, che quando Gregorio viene a sapere della morte di Leo, rasentano la testamentaria secchezza e l’afasia.

“Ma te l’hanno detto come se n’è voluto andare?”.

“Sì, con l’ago nelle vene”.

Anche se non si può mai dire con esattezza chi sia l’inseguitore o chi l’inseguito; o se non sia del tutto una serra di delicato inganno; un viaggio nel nulla, fin da quando si giocava ad essere morti, da quando ci è giunto all’orecchio di questi luoghi, con quel salto oltre il muro Falconi Leo era divenuto un eroe, che la pietà ora confermava.

Che significava essere morti? Un nembo, un ansante aquilone che spiana il gruppo torbido. Si correva ancora da morti sull’opposta riva?

Le voci non davano mai garanzie sopra il tunnel dei tunnel, quello per antonomasia, dove il treno nerissimo s’imbuca di questi fiati senza materia.

Il ribollio che a noi si scopre è forse l’enigma dialettico del tempo, ai cui misteri, tra i fili che ci congiungono e ci disgiungono, si dibatte il cuore; e la mente è attonita.

La arguzia ormai la conosceva, per tornare all’assalto della vita, per sfiorare le piazze assopite senza dare nell’occhio.

Però l’inganno da qualche parte doveva pur esserci.

Quell’odore del tempo passato, e non respirato.

E i sensi, in quest’odore che non sa staccarsi, riconoscono solo muffa.

Per vincere secoli di malinconia, e passare i riverberi dell’orizzonte a questo punto, strappati dal mio fianco e cammina nel cielo: gli scroscia la sua ombra; e se il passato è solo un’agonia minerale, senza più la dolcezza inquieta di qualche sorriso, essere vivi, allora, non è impresa da poco.

Il pozzo più profondo del nostro essere, quello che rimane immune dalla colpa; quella specie di devozione incorporea a qualcosa di più universale, ti avverte di un trascorrere, che, sia esso soavissima neve o acre muffa, è maceria invece che solenne rovina.

Se poi anche lo Stato, garante dell’avvenire, piomba giù e i poeti, gente conosciuta per la natura chimerica dei loro progetti – e naturalmente portati ai discorsi catastrofici, s’incontrano per giunta con un’altra malinconia, quella degli scienziati, che già indovinavano la crisi dell’avvenire; di fronte a questa tristezza, ha detto qualcuno, solo l’astrologia ci dà ancora un po’ di conforto.

Ma il collezionista di tempo non cerca alcun conforto. Vuole modificare il destino.

La crisi dell’avvenire, con la sua deflagrazione – quella apocalissi tellurica che ci attende – restituisce al testo che Gregorio sta per scrivere un’altra gravità; e in mezzo a questo presente purgatoriale, come di ombre e sopravvissuti, lo innalza nel ricordo di un attimo, nella cui immensità avrebbe potuto contrapporsi alla segreta alacrità della specie; e in quel soffio ove affonda leggero il peso delle fronde, scegliere un altro sentiero; quando, tra le care ombre, rapiva il suo progressivo essere il fanciullo di allora.

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PITTURE NERE n.4: Uno sguardo sul porto. Marino Magliani, “La Tana degli Alberibelli”

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