Più vero della finzione: L’importo della ferita e altre storie, di Pippo Russo

Creato il 23 settembre 2013 da Atlantidezine

Pippo Russo può essere che non l’abbiate ancora sentito nominare (anche se sarebbe strano, visto il clamore che il suo nome ha sollevato negli ultimi mesi); se così fosse, non leggete oltre, fermatevi qui. Spegnete il computer, vestitevi, uscite, andate in libreria. Chiedete del suo libro L’importo della ferita e altre storie, e compratelo. Tornate a casa, chiudete la porta, non riaccendete il computer, staccate il telefono, spegnete il cellulare. E cominciate a leggere. Perché Pippo Russo è uno che si è preso un sacco di proiettili per tutti noi, e merita la massima attenzione che possiate dedicargli.

Il concetto del volume è lo stesso di un altro libro di Russo, Pallonate. Tic, eccessi e strafalcioni del giornalismo sportivo italiano (Meltemi, 2003): prendere un testo e passarlo al microscopio, saggiandone sul filo di lama sfondoni, inesattezze, forzature, sciatterie, incongruenze. Solo che in quel caso si trattava di articoli di giornale. Per L’importo della ferita, la materia prima è costituita da tomazzi elefantiaci di centinaia di pagine: un’inesauribile, stordente, tronfia, stolida, ottundente massa di carta e inchiostro, che ha impoverito le riserve d’aria planetarie sacrificando intere foreste ai venerandi Nomi dei Numi tutelari dell’ebetudine letteraria italiana. Faletti Giorgio. Volo Fabio. Moccia Federico. Ghinazzi Enzo (“Pupo”). Sangiorgi Giuliano. Scurati Antonio. Piperno Alessandro. Di ognuno di questi personaggi, Pippo Russo si è letto ogni parola di ogni riga di ogni pagina di ogni romanzo. Ed è (incredibilmente, per quanto mi riguarda) sopravvissuto, per raccontarci quello che ci ha trovato dentro.

Il volume è diviso in tre sezioni. La prima (I libro-panettonisti) esamina le “opere” di Faletti, Volo e Moccia: best-seller da milioni di copie vendute che hanno reso il nome dell’autore un marchio di fatturato: storie seriali che ripetono trame (quando ce n’è), intrecci narrativi (quando si riesce a rintracciarne), personaggi et cetera in nome del principio “squadra che vince non si cambia”. Ed editor che corregge non si trova. Perché altra spiegazione non si può pensare, per lo strabordare di refusi, frasi zoppe, sfondoni grammaticali, nonsense e sciatterie varie, se non che i libri di simili individui non vengano nemmeno passati al vaglio del correttore automatico di Word. Tanto, chissenefrega – penseranno gli editori – la gente se li ingolla lo stesso anche se traboccano di schifezze, a che vale buttare via i soldi per editarli? Denaro risparmiato, denaro guadagnato. E così ci troviamo perle come appunto “l’importo della ferita”, l’espressione falettiana priva di qualsivoglia senso che dà il titolo al libro e sembra tradotta dall’inglese: tanto da dare adito, qualche anno fa, a ipotesi di una eventuale versione originaria americana di alcuni passi dei romanzi di Faletti. Ipotesi eccessivamente lambiccata, alla luce dell’analisi di Russo: non è che Faletti traduca dall’americano, è solo che non sa scrivere in italiano. Di esempi simili ce n’è a migliaia. E poi Fabio Volo, che ci racconta di cacca, seghe e infantilismi vari da adulto drammaticamente irrisolto e circondato da imbecilli; oppure Moccia, che beatifica il mondo dei coatti come fosse una delle sciacquette rincoglionite che mette in scena nelle sue non-storie.

Nella seconda sezione ci sono I narratori improvvisati, che nelle persone di Pupo e Sangiorgi dei Negramaro ci mostrano quanto sia facile pubblicare un libro se si è già famosi per qualcos’altro: ma, ahimé, non ci mostrano come sia facile scrivere un libro quando non si è capaci di mettere due parole in fila. Ed ecco allora nascere la storiella da parrucchiere de La confessione di Pupo – il soporifero thriller ambientato nei giorni del Festival di Sanremo – e de Lo spacciatore di carne di Sangiorgi, il romanzo presuntamente pulp che racconta la storia di uno studente pugliese fuori sede a Bologna che si paga vizi e stravizi scambiando la carne che il padre macellaio gli manda da casa, mentre il figlio si abbandona all’abbrutimento e alla perdizione. Ma che sonno, cavolo, spegnete la luce che mi faccio un pisolo.

La terza sezione, infine, passa in rassegna i romanzi de I premiati: cioè gli autori le cui opere (tutte o quasi) hanno potuto fregiarsi dell’ambito riconoscimento di un bel premio letterario. Uno di quelle centinaia, migliaia di premi che in Italia proliferano per buttare nel cesso un altro po’ di fondi pubblici (che tanto siamo ricchi), e che ormai non negheremmo più nemmeno alla zia Cristina e al suo libro di ricette. E che, quando uno scrittore se ne vede sottrarre uno, si fa venire una gastrite. Come capita al Sommo Antonio Scurati, il re della retorica accademica da cenciaiolo, che pare non si sia mai fatto una ragione dell’essere stato privato, nel 2009, dell’ambitissimo Premio Strega (lo vinse Tiziano Scarpa). Peccato che Scurati, con tutta la sua erudizione, la sua sociologia, il suo stile da lattoniere, non riesca nemmeno a tenere in piedi una timeline narrativa di tre giorni: come risulta da un passo de Il bambino che sognava la fine del mondo, in cui la sequenza corretta degli eventi si accartoccia in una tale confusione di date e giorni da rendere difficile l’interpretazione persino a un sensitivo. Scurati, vabbé che sei tanto colto, ma almeno un calendario davanti potresti tenertelo, mentre scrivi.

L’analisi di Russo è ironica, divertentissima (il capitolo su Fabio Volo mi ha fatto venire il singhiozzo dal ridere) e implacabile. Del resto l’anatomia del testo non lascia scampo: se uno non sa scrivere, non sa scrivere, e quando si analizzano le opere al microscopio non ci sono vie di fuga che tengano. Vero che Russo a volte si lascia prendere forse un po’ troppo la mano, classificando come strafalcioni espressioni che avrebbero meritato una maggiore indulgenza. Ma sono casi che si contano sulle dita di una mano. La realtà è che il libro di Russo costituisce uno stupidario di tic, superficialità, rozzezze e sciatterie non solo degli specifici prodotti narrativi realizzati da alcuni autori particolarmente imbarazzanti (tanto più quando ammantati di un’aura di austera dignità come Scurati e Piperno, che si rivelano non migliori di un Faletti qualunque), ma bensì di una più generale e italianissima tendenza di concepire la letteratura (o anche solo la narrativa). Ed è questo, a mio avviso, il significato più profondo del libro di Russo: si ride degli strafalcioni, ma si finisce per avere davanti una radiografia di un paese alla deriva anche nella propria concezione della narrativa e del rapporto con il lettore.

Della nostra bella Nazione, la narrativa esaminata da Russo presenta tutte le principali e più intrinseche qualità caratterizzanti. In primo luogo, il successo genera successo: e poco importa che sia un successo basato sull’ignoranza, più che sulla qualità. Anzi, meglio: perché l’ignoranza non ha bisogno di orpelli come la cura redazionale, l’attenzione editoriale a forma e sostanza, la rifinitura del prodotto. È importante saperlo: quando pubblicano Faletti, Volo o Moccia, gli editori se ne fottono di voi, perché sanno che tanto darete loro comunque i vostri soldi, affollerete le librerie, farete la fila per avere l’autografo. E quindi prendeteveli così come sono, i loro libri, pieni di brutture, refusi e trascuratezza. Perché spendere, quando si può guadagnare?

In secondo luogo, nel paese in cui nessuno legge tutti possono essere grandi scrittori. Anche Pupo. Scrivere in fondo significa solo mettere una parola dopo l’altra, no? Che ci vorrà mai?

E infine, la cosa più importante. Non. Leggete. Il. Giornale. O quantomeno la pagina culturale del Corriere della Sera. Sì, perché uno spettro si aggira per le pagine de L’importo della ferita: uno spettro che risponde al nome di Antonio D’Orrico. In verità nel corso del volume non è mai nominato esplicitamente, nemmeno una volta; ma la sua presenza non può non avvertirsi, intangibile e palpabile al contempo, come il clangore di una campana a morto che batte i suoi rintocchi funesti, in molti dei capitoli che compongono il volume, e che corrispondono ad altrettante vergogne del nostro panorama letterario.

Giorgio Faletti. DONG!

Fabio Volo. DONG!

Alessandro Piperno. DONG!

Ognuno di questi nomi deve, almeno in parte, il proprio spropositato successo (oltre che all’indiscutibile deficit cognitivo del lettore italiano medio) alle parole di sperticato elogio diramate sul territorio nazionale dalle colonne del Corriere per mano di D’Orrico. Che giudica Faletti (il fatto ormai è leggendario) “il più grande scrittore italiano”. Che preferisce Fabio Volo a Erri De Luca. Che consiglia ai lettori di mettere via Murakami per leggere Piperno. Davvero strano che non abbia incensato l’esordio narrativo di Pupo o di Sangiorgi. Ma se uno, aprendo la pagina culturale di un quotidiano nazionale, deve rischiare di trovarci simili consigli da bimbominchia, tanto vale leggere Cioè.

Tra l’altro mi pare di ricordare che anche D’Orrico abbia scritto un libro, Come vendere un milione di copie e vivere felici. Non ricordo invece di averlo mai visto in una libreria, nemmeno per sbaglio. Forse sarà meglio che, invece di scrivere altri libri, D’Orrico continui a leggere quelli degli altri; con l’augurio di sceglierne, ogni tanto, anche qualcuno bello.

P.S. Fra poco comincerà Masterpiece, il talent show per scrittori esordienti. Manco a dirlo, i manoscritti arrivati alla redazione del programma sono più di quattromila, perché in Italia siamo tutti grandi scrittori incompresi. Pippo Russo se ne occuperà nel suo blog Cercando Oblivia: se volete farvi due risate, vi consiglio di tenerlo d’occhio.

Pippo Russo
L’importo della ferita
Edizioni Clichy
2013, pp. 303, € 15,00

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