Molto spesso l’integrazione regionale si è presentata come uno degli strumenti migliori per rispondere alle sfide internazionali poste dalla globalizzazione. Nel contesto latinoamericano, un progetto d’integrazione che merita sicuramente di essere analizzato più da vicino è il Plan Puebla-Panamá o Proyecto Mesoamérica, un piano di sviluppo di miliardi di dollari promosso dal presidente messicano Vicente Fox nel 2001 con lo scopo di promuovere l’integrazione regionale e lo sviluppo dell’area centroamericana.
Le relazioni tra Messico e il resto dei paesi centroamericani cominciarono a rafforzarsi già durante l’ultimo decennio degli anni novanta, dopo un lungo periodo di instabilità politica ed economica che colpì la maggior parte dei governi dei paesi di quell’area. L’obiettivo di questo rinnovato slancio nella cooperazione tra quei paesi si ritrovava indubbiamente nella volontà di collaborare ad un progetto di integrazione sullo sfondo di uno scenario di pace. I primi passi verso ciò che porterà al Plan Puebla Panamá furono mossi già nel 1991, quando il vertice dei presidenti dell’America centrale e del Messico, riuniti nella città di Tuxtla Gutierrez, nel cuore del Chiapas, stabilì il Mecanismo de Diálogo y Concertación che divenne nel giro di poco tempo il principale foro mesoamericano per l’analisi periodica e sistematica di tutte le questioni regionali, emisferiche e globali riguardanti gli interessi comuni dei paesi della regione centroamericana. Si trattava dunque del primo passo verso la concertazione e la collaborazione per uno sviluppo sostenibile dell’area. Al vertice di Tuxtla ne seguirono altri otto che videro l’ingresso anche dei governi di Belize e Panama, nel 1996, e di quello colombiano nel 2006.
È in questo contesto di integrazione economica e di grande cooperazione nella regione mesoamericana che s’insinua la figura di Vicente Fox, il presidente messicano che dal settembre del 2000 proponeva la possibilità di realizzare un piano di sviluppo regionale che si estendesse dai nove Stati del Messico meridionale – Puebla, Veracruz, Tabasco, Campeche, Yucatán, Quintana Roo, Guerrero, Oaxaca e Chiapas – ai sette paesi del centroamerica: Guatemala, Honduras, El Salvador, Nicaragua, Costa Rica, Panama e Belize. Ufficialmente, il progetto d’integrazione venne messo in moto il 15 giugno del 2001 a San Salvador, quando tutti i paesi promotori del mecanismo de diálogo de Tuxtla decisero di sostenere il piano “come strumento per avviare un processo di sviluppo e di integrazione regionale con lo scopo di approfondire e rafforzare il dialogo politico e la cooperazione internazionale”[1]. Il nome del progetto derivava dai due estremi della regione interessata dal piano di integrazione regionale; dalla città messicana di Puebla, a nord, a Panama, capitale del paese centroamericano, a sud.
Nella prospettiva di Fox, il progetto era di fatto una strategia regionale basata su otto iniziative destinate a potenziare lo sviluppo economico, ridurre la povertà, accrescere la ricchezza del capitale umano e del capitale naturale della regione mesoamericana nel pieno rispetto della diversità culturale ed etnica, e includere in tale processo la società civile. Obiettivo primario del piano era quello di promuovere lo sviluppo regionale mediante gli sforzi congiunti dei paesi partecipanti nella prospettiva di migliorare la qualità di vita degli abitanti della regione centroamericana e di favorire la convergenza degli interessi regionali per la realizzazione di beni pubblici comuni. Sarà proprio Fox ad affermare nel 2001 che “il Plan Puebla Panamá è una proposta del governo messicano al fine di determinare l’integrazione della regione mesoamericana mediante la costruzione di un enorme corridoio trasversale di infrastrutture a partire dalla costa del Golfo del Messico lungo tutta la costa del Pacifico dell’America Centrale, creando un’ampia rete di vie di comunicazioni e trasporti che generino condizioni di sviluppo e circostanze propizie che permettano lo sfruttamento delle risorse naturali che abbondano nella regione che si estende dal Messico a tutti i paesi centroamericani, compresi quelli caraibici”.[2]
Tra le iniziative di sviluppo che si proponeva sin dall’inizio il progetto vi erano dei programmi che erano stati pensati non solo per facilitare il processo di integrazione regionale in atto ma anche per stimolare il commercio e gli investimenti stranieri. Erano due gli assi che sostenevano tutto l’impianto del Proyecto Mesoamérica: l’integrazione era senz’altro la parola d’ordine, infatti era prevista la fusione dei settori energetici dei vari paesi, così come l’interconnessione dei trasporti e delle telecomunicazioni al fine di ridurre i costi e ampliare l’offerta dei servizi agli abitanti della regione centroamericana. Altro asse fondamentale era quello relativo allo sviluppo sostenibile della regione, con particolare attenzione alla salvaguardia dell’ambiente e delle risorse naturali, alla promozione di un turismo consapevole e rispettoso e alla prevenzione dei disastri naturali[3]. Tutti obiettivi, secondo Vicente Fox, che si sarebbero potuti raggiungere solo ed esclusivamente attraverso la cooperazione e agli sforzi congiunti dei governi dei paesi coinvolti in un clima di assoluto rispetto della sovranità e della ricerca del consenso.
Sin dal lancio di questa ambiziosa iniziativa, ci si aspettò una serie di risultati il cui raggiungimento avrebbe dato prova della bontà del progetto: integrare rapidamente le vie di comunicazione terrestri, marittime e aeree dei vari paesi centroamericani; armonizzare le norme e gli standard commerciali per raggiungere una piena integrazione economica; aumentare la capacità produttiva delle imprese, stimolando forme di cooperazione tra le varie piccole e medie imprese; consolidare la regione nel suo insieme come meta turistica competitiva e altamente attrattiva a livello mondiale. Questi erano solo alcuni dei propositi a breve termine che si sperava di raggiungere entro il 2011. Ancora più impegnativi erano gli obiettivi per il lungo termine, se consideriamo che nella lista dei “buoni propositi” per il 2025 il Plan Puebla-Panamá conta di annientare le malattie materno-infantili, la trasmissione del HIV, dimezzare il numero degli abitanti che patiscono la fame, ridurre l’indebitamento pubblico e provvedere alla realizzazione di infrastrutture all’avanguardia in tutto il territorio mesoamericano.
Durante il quarto vertice del Meccanismo di Dialogo e Concertazione di Tuxtla, realizzato nella capitale nicaraguense il 25 marzo del 2004[4], si decise per l’istituzionalizzazione del Plan Puebla Panamá secondo una struttura che prevedeva un consiglio dei presidenti, all’interno del quale i leader dei paesi si riunivano per discutere gli aspetti relativi al progetto d’integrazione; una commissione esecutiva che s’incaricava della pianificazione e della coordinazione di iniziative e progetti che dovevano essere adottati nel quadro del progetto e alla quale si affiancavano otto sotto commissioni, una per paese, alle quali venivano assegnate tematiche specifiche con potere di guidare le iniziative e i progetti nei vari settori; la direzione esecutiva aveva la funzione di dare esecuzione a quanto stabilito dalla commissione; la commissione di promozione e finanziamento aveva il compito di appoggiare la promozione e la ricerca di finanziamenti per l’esecuzione dei progetti contemplati dalle iniziative del progetto; il gruppo tecnico interistituzionale (GTI) che affianca la commissione nella definizione delle iniziative e dei progetti ed è costituita, tra le altre, dalla Banca Centroamericana per l’Integrazione economica (BCIE), dalla Banca Interamericana di Sviluppo (BID) e dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL); il consiglio consultivo ha il compito di favorire la partecipazione della società civile; il programma d’informazione, consultazione e partecipazione (ICP) creato nel 2002 al fine di rendere attivamente partecipi le organizzazioni della società civile in quelli che sono gli obiettivi e i processi in atto previsti dal Plan Puebla Panamá; il gruppo per la partecipazione indigena ed etnica (GAPIE), nato nel 2003, che doveva coinvolgere le popolazioni indigene nella pianificazione degli obiettivi e dei progetti d’integrazione regionale[5].
Sin dall’inizio il progetto è stato presentato come un una reale opportunità di crescita per la regione mesoamericana, un vero e proprio strumento per abbattere la fame e la povertà dei paesi centroamericani. Tuttavia, secondo diversi critici, il modello di sviluppo che propone non sembra introdurre progetti alternativi per ottenere una crescita reale della regione; infatti se è vero che i finanziamenti alle infrastrutture e alle imprese locali sono importanti, è pur tanto necessario affermare che essi non sono sufficienti a ridurre sostanzialmente le carenze endemiche di alcuni paesi economicamente depressi come quelli dell’area caraibica. A ciò si deve aggiungere che la maggior parte dei suoi obiettivi sono raggiungibili solo attraverso prestiti provenienti da istituzioni finanziarie che non fanno altro che aumentare considerevolmente il debito estero dei paesi della regione. Nel 2010 il debito di questi paesi ha raggiunto i due miliardi di dollari[6]. Aggravare il proprio debito per costruire infrastrutture è effettivamente una forma abbastanza contorta di volersi impegnare nella lotta alla malnutrizione e alla povertà.
Le principali istituzioni finanziarie internazionali che sponsorizzano il progetto di integrazione e sviluppo regionale mesoamericano sono la Inter-American Development Bank (IDB), la Central American Bank for Economic Integration (CABEI) e la Banca Mondiale[7]. La IDB risulta essere la più grande banca d’investimento regionale e la principale finanziatrice del Proyecto Mesoamérica con una capacità di prestito annuale di quasi nove miliardi di dollari anche se non sono da meno i prestiti della CABEI che versa ogni anno nelle casse del Plan Puebla Panamá circa otto miliardi di dollari. Oltre a queste istituzioni finanziarie, si annoverano tra i principali investitori anche moltissime società, soprattutto statunitensi, che finanziando progetti multimilionari hanno fatto affari d’oro, e tra queste ricordiamo ENDESA, Harken Energy, Delasa, Shell, Applied Energy Services[8].
Oltre al coinvolgimento statunitense legato alla concessione di prestiti e finanziamenti al progetto di Vicente Fox, appare interessante voler analizzare la questione del PPP alla luce delle implicazioni geopolitiche e strategiche che esso ha comportato in tutti questi anni e da cui gli Stati Uniti in primis hanno ricevuto grande profitto. A livello geopolitico, la posizione della regione mesoamericana è sempre stata oggetto di particolare interesse da parte di Washington. Situata proprio a sud del paese economicamente e militarmente più potente del mondo, l’America centrale rappresenta un lembo di terra che divide i centri di produzione della crescente economia asiatica dai principali mercati statunitensi ed europei. Volendo fare un’analisi ancora più approfondita dei risvolti geopolitici, possiamo sottolineare che storicamente la parte più consistente del commercio mondiale, circa il 70%, si è sviluppata lungo i paralleli degli Stati Uniti, di Giappone ed Europa, accrescendo considerevolmente la partecipazione dei mercati asiatici conseguentemente all’apertura di quest’ultimi al commercio internazionale. Tale apertura determinò la comparsa di una nuova area commerciale particolarmente attrattiva il cui potenziale era enorme e su cui gli Stati Uniti avevano messo gli occhi già a partire dell’inizio degli anni novanta. Non a caso le relazioni commerciali intrattenute attualmente dagli Stati Uniti con i paesi asiatici rappresentano circa il 12% del totale dei rapporti commerciali che essi mantengono a livello mondiale. È chiaro dunque che la Cina rappresenta per gli Stati Uniti il principale mercato di riferimento, ed è proprio in questo contesto di interessi commerciali ed economici che entrano in gioco le implicazioni geopolitiche del Plan Puebla Panamá[9]. Da un punto di vista puramente commerciale, la regione mesoamericana, e il Canale di Panama in particolare, rappresentano il punto di passaggio migliore per i prodotti statunitensi diretti verso l’estremo oriente, uno snodo ideale per ridurre i costi e accelerare i tempi degli scambi commerciali.
Incentivare la creazione di nuove infrastrutture e migliorare le vie di comunicazione della regione centroamericana erano solo due degli obiettivi che Washington sperava di ottenere dal finanziamento di questo piano. Proprio in quest’ottica, gli Stati Uniti hanno sostenuto il progetto di Vicente Fox cercando di ottenere attraverso la costruzione di nuovi porti e arterie stradali tutte le facilitazioni possibili per il passaggio della mercanzia dall’Atlantico al Pacifico e viceversa. Il piano che sia i paesi dell’area centroamericana sia gli Stati Uniti avevano sposato ruotava attorno alla creazione di quattro progetti differenti nella zona caraibica di Honduras, Salvador e Nicaragua dove si voleva costruire tutta una serie di infrastrutture portuarie e vie di comunicazioni stradali e ferroviarie. Ad esempio, nell’Istmo di Tehuantepec in Messico si portò avanti un mega progetto che proponeva la realizzazione di un porto sul Golfo del Messico e di un altro sull’Oceano Pacifico, entrambi collegati da una linea ferroviaria e stradale che permettesse collegamenti rapidi[10]. Progetti simili si stanno pianificando anche in Guatemala, in Honduras e in Nicaragua. In tutti i casi, essi sono stati portati avanti con lo scopo di ridurre la distanza e il tempo di percorrenza esistente tra i vari porti in modo da rendere più rapidi gli scambi da una parte all’altra della regione mesoamericana.
Per quanto riguarda le vie di comunicazioni della regione, il progettosi proponeva, tra l’altro, di migliorare il Canale di Panama per renderlo adeguato agli altri circuiti mondiali di navigazione. In sostanza, dunque, il Plan Puebla-Panamá sembrava essere totalmente legato alla trasformazione della regione mesoamericana in un grande porto che avvantaggiasse Washington nell’accaparrarsi una fetta importante dei mercati asiatici e che facilitasse le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e il sud est asiatico[11].
Dunque, alla luce di quello che abbiamo sin qui detto, sembrerebbe necessario trovare una risposta alla seguente domanda: si tratta di un piano destinato a provvedere alla reale crescita economica della regione centroamericana o è semplicemente un progetto che maschera gli interessi strategici ed economici della superpotenza statunitense? È a questa domanda che diversi critici e “addetti ai lavori” cercano di dare una risposta. Alcuni detrattori ritengono che questo sia semplicemente uno strumento nelle mani degli Stati Uniti i quali, attraverso l’ALCA (Área de Libre Comercio de las Américas) o il NAFTA (North American Free Trade Agreement), cercano di insinuare la propria idea di sviluppo neoliberale nella regione centroamericana, favorendo la diffusione di imprese statunitensi e multinazionali che, nella maggior parte dei casi, sfruttano il basso costo della manodopera messicana e le inestimabili risorse della regione.
Pesanti critiche sono arrivate anche dai membri di diversi gruppi di opposizione, i quali hanno rilasciato una dichiarazione a Managua nel luglio del 2002 nella quale manifestavano chiaramente il loro dissenso nei confronti di un progetto che avrebbe aggravato la situazione della regione mesoamericana piuttosto che avvantaggiarla. “Abbiamo concordato un rifiuto totale del Plan Puebla Panamá, dell’ALCA e degli accordi di libero scambio perché siamo convinti che siano in netto contrasto con lo sviluppo sostenibile del nostro popolo, una rovina per la biodiversità e un peggioramento delle condizioni economiche di questi paesi. Allo stesso modo riteniamo che questi accordi siano mera espressione degli interessi del governo degli Stati Uniti che mira a costruire una zona di libero scambio al servizio suo e delle multinazionali che sostiene, a scapito dei nostri diritti fondamentali”[12]. Altri, invece, ritengono che l’intera struttura del progetto Mesoamerica sia stato disegnato per ottenere una drastica riduzione delle migrazioni provenienti principalmente dal Messico e dirette negli Stati Uniti; infatti creare nuovi posti di lavoro e impegnarsi nel migliorare le condizioni di vita degli abitanti della regione centroamericana avrebbe aiutato a diminuire il numero di quanti ogni giorno cercano una vita migliore aldilà del confine con gli Stati Uniti[13].
Le resistenze non arrivano solo dagli “addetti ai lavori” ma anche e soprattutto dalla società civile che, anziché essere inclusa nel meccanismo decisionale e resa parte fondamentale per la riuscita del progetto, come era stato prospettato sin dagli inizi dal piano d’integrazione regionale, è stata molto spesso depauperata delle proprie terre e delle proprie case sottratte dai governi in nome della privatizzazione per raggiungere il “bene comune”. È proprio in seguito ai crescenti casi di insurrezione e resistenza che la militarizzazione nella regione ha subito un’escalation significativa. Già nel 1998 gli Stati Uniti avevano dato vita ad un controverso piano di assistenza umanitaria chiamato “New Horizons” in base al quale 12.000 uomini dell’esercito statunitense sarebbero stati impiegati in America Centrale con lo scopo di fornire aiuto e sostegno nella realizzazione di infrastrutture e di esercitazioni militari congiunte. Nel 2003, circa 400 soldati statunitensi furono dispiegati nella zona dell’autostrada Panamericana, lungo il confine con la Colombia mentre altre truppe statunitensi venivano stanziate in Guatemala. A marzo del 2004, circa 1.500 soldati nordamericani vennero impiegati nella costruzione di strutture caritatevoli per progetti umanitari in Guatemala, anche se lo scopo reale di questo dispiegamento massiccio di forze era quello di favorire l’incursione USA nei territori centroamericani in previsione di resistenze e contestazioni alle privatizzazioni previste dal Plan Puebla-Panamáe come base d’appoggio per la lotta al narcotraffico, da sempre vera e propria spina nel fianco dell’ordine pubblico della regione.
In conclusione si può sostenere che il territorio mesoamericano come obiettivo geografico è uno dei più adatti per qualsiasi progetto geopolitico che miri al consolidamento del controllo economico e militare nel continente americano. L’estrema facilità di collegamento tra l’Oceano Atlantico e il Pacifico, le incalcolabili ricchezze naturali non ancora del tutto sfruttate, la manodopera a basso costo, le facilitazioni commerciali con le “tigri asiatiche” e le potenzialità militari come testa di ponte dalle grandi capacità logistiche rendono la regione centroamericana il luogo ideale dove Washington può consolidare la propria egemonia mondiale. L’enfasi posta dagli Stati Uniti nel progetto di integrazione regionale voluto da Vicente Fox si ritrova anche nel discorso legato alla politica energetica emisferica; infatti il Nord America ha mostrato a più riprese l’interesse ad usufruire delle inestimabili risorse della regione, tra cui il petrolio venezuelano e colombiano. Già George W. Bush nel 2004 aveva dichiarato che “le risorse petrolifere dell’America centrale sono da considerarsi come risorse dell’intero emisfero, non solo venezuelane o messicane, ma di dominio anche statunitense”[14].
Dunque, nell’ottica strategica ed egemonica, gli Stati Uniti considerano il Plan Puebla Panamá più che come un progetto di crescita e sviluppo sostenibile della zona centroamericana, come uno strumento adatto a consentire un controllo più vicino e particolareggiato dei loro interessi economici, commerciali e militari. Ancora una volta quindi si può affermare che gli Stati Uniti abbiano usato tutta la loro influenza per manipolare le scelte e i progetti di sviluppo dell’America Centrale affinché esse potessero assecondare gli interessi nordamericani da sempre molto forti nella regione mesoamericana. Come a dire che gli anni passano ma l’ottica del “imperial state”gli Stati Uniti non l’hanno mai persa di vista.