In questi giorni, in cui l’aria è stata (e continua ad esserlo) così densa e appesantita dalle chiacchiere più inutili, la mia insofferenza per il “parlato” è arrivata al punto di non poter più sopportare la musica cantata, neanche quella che recensisco spesso su queste pagine… Qualche esempio? Io sono un chitarrista, come tale riconosco nel riff introduttivo di Sweet Child O’ Mine (link) una delle cose più belle concepite alla chitarra dagli anni ’90 ad oggi… ma u testu v’hatu mai liggiutu? Ha un sorriso che mi é familiare. Mi ricorda memorie d’infanzia dove tutto era puro e splendente
come il cielo azzurro. Prima o poi vedo il suo viso e lei riesce a portarmi in quel posto speciale. E se lo fissassi troppo a lungo, probabilmente scoppierei a piangere. Dolce bambina mia, Dolce amore mio…
Ma stamu babbiannu?!? Meno male che certi artisti cantano in inglese, credetemi!
D’altro canto, amici miei, non è che quelli con il testo impegnato e la musica insussistente dal punto di vista etico e morale (i cantautori), mi facciano impazzire. Dico io, almeno ‘sti testi coordinateli alla musica che li accompagna, porca la miseriaccia, ma cu va resa sta chitarra??? E poi… che palle!!! Tutte uguali ‘ste canzoni impegnate, porca la miseriaccia boia (link)!
Allora preferisco ascoltare artisti che riescono a trasmettere, a parlare, senza favellar! Solo Musica, solo quell’intricato sistema matematico di melodia e armonia, ritmi e note. Il migliore dei modi per essere schietti! Le parole, si sa, spesso quando escono dalla bocca sono già appesantite dai primi ripensamenti, quando poi vengono trascritte su carta non c’è neanche la parvenza di quello che volevano realmente dire in origine. Esempio: Si pensi a quel meraviglioso imbecille della strage di Breivik! …primo collegamento mentale: Ci voli na gran passata di lignati! …successivo primo pensiero espresso per mezzo dell’ugola: Punizione Esemplare! …conseguente trascrizione su documento cartaceo: Bisogna indagare nel subconscio e vedere se era capace di intendere e volere.
Ecco perchè di tanto in tanto decido di ripiegare su una delle mie passioni musicali più menzionate: il Jazz, formula del tutto inadatta ad identificare un genere complesso ed eterogeneo. Il genere più immediato e spontaneo nel suo continuo esplorare improvvisativo. Un modo di dialogare senza travisamenti!
Ma oggi voglio parlarvi di un album in particolare, un disco estremamente divertente: Ritorniamo indietro nel tempo fino al ’64, anno meraviglioso per il mondo del jazz: il sottogenere modale (link) è ben avviato e gli artisti di grido (Davis, Coltrane, Evans, Henderson, Rollins, Coleman etc, etc) – partendo dal Be-Bop del dopoguerra (link) – al bivio hanno già imboccato nuove vie (tra le quali il Free, link). A breve ci sarà anche l’infatuazione rock (link) e molti sono già pronti per lanciarsi nella riproposizione in chiave jazz di quelli che ancora non sono classici dei Beatles (link). C’è fermento, questo è sicuro. Cosa resta del jazz ante-parkeriano, quello che affonda le sue radici nello Swing (link) del Grande Gatsby? In verità ben poco, e quegli stessi artisti che ancora lo suonano si sono dovuti per forza rinnovare per mezzo del nuovo linguaggio bop (nel ’64 ormai vecchio, intendiamoci)!
Clark Terry è uno di questi artisti, un cornettista da sempre annoverato (insieme al mitico Dizzy Gillespie) tra le maggiori influenze del giovane Miles Davis. Dotato di grande tecnica e soprattutto di ironia, è un virtuoso elegante dello strumento a fiato spernacchiante. A dire il vero qualcuno gli rimprovera proprio questo modo di far divertire i bianchi, e le inflessioni armstronghiane certo non lo aiutano ad inserirsi tra gli ascoltatori afro-americani più giovani e politicizzati (si ricordi il passaggio da Martin Luther King a Malcom X).
Quando Oscar Peterson – colosso del pianoforte jazz, non solo metaforicamente – chiama Terry ad unirsi al suo Trio per una suonata, tutti immaginano la solita solfa mezza revivalista, estremamente tecnica, forse anche troppo. E invece ne viene fuori uno dei migliori (forse l’ultimo) esempi di Jazz genuino, capace di racchiudere tutte le esperienze dal Dixieland al Bop di Charlie Paker, in appena dieci brani.
Oscar Peterson Trio Plus One è un classico della discografia jazz e non solo per la presenza al contrabbasso del leggendario Ray Brown. Si parte con il tipico standard: Brotherhood of Man (link), esplosivo ed energetico con i due mostri sacri che si avvicendano in altrettanti eclatanti assoli. Estremamente raffinato, ma decisamente vigoroso! Terry sprizza energia da tutti i pistoni (sì, sono solo tre…lo so)! Il finale è da manuale, Peterson sembra pattinare sul ghiaccio – veloce come un politico sul tastierino dello scranno parlamentare quando deve aumentarsi lo stipendio – e Terry lo accompagna senza inseguire.
Da 4.28 del video inserito nel link di poco fa, parte il secondo brano del disco: una slow ballad, Jim. Qui è Peterson ad esser il protagonista, con il suo pianismo ellingtoniano (link). Terry cerca di mantenersi lirico (ricorda parecchio il Davis classico [link] in alcuni momenti) e leggiadro, ma poi proprio non ce la fa e comincia a giocare togliendo e inserendo la sordina al suo flicorno! Il tizio dialoga con se stesso in altri termini! Finale scoppiettante!
Non si può che continuare con un blues, blues for smedley, di cui purtroppo non ho trovato traccia sul tubo. Il pezzo è semplicemente strepitoso, dotato di un crescendo fortemente dinamico. La storia della musica, tutta quella che conosciamo, è condensato in blues come questo.
Ma per capire bene il personaggio Clark Terry bisogna arrivare al quinto brano in scaletta: Mumbles (link)! Forse il vero emblema di questo straordinario musicista, il suo marchio di fabbrica. Non si può far a meno di immaginare Oscar Peterson divertito nell’osservare l’amico improvvisare con la sua finta parlata. Geniale!
Come del resto lo è anche l’ennesima esecuzione del pluripremiato Mack The Knife (link). Terry – introdotto dall’incedere virtuoso di Peterson – è seducente, fluente come un ruscello appena sgorgato e zampillante da una nuova fenditura sulla roccia. Fresco e altrettanto perfetto è il solo del pianista! Semplicemente incontenibile, irraggiungibile ancor oggi. Il miglior brano di questo lavoro, senz’altro!
Altri momenti memorabili del disco sono la velocissima e bop Squeeky’s Blues, lo standard I Want A Little Girl – momento pregno di fumo tabaccoso e bourbon sul tavolo di legno nodoso - e poi in chiusura c’è ancora Terry con la sua incredibile tecnica di improvvisazione vocale, incoherent blues (link), momento magico, ironico ma di chiusura per un’epoca che per un bel po’ non ritornerà. Speriamo che i Monotoni (la setta eretica, non i candidati del centrosinistra degli ultimi dieci anni) abbiano ragione e tra qualche tempo Platone ricominci ad insegnare nuovamente in Atene…
Ma sto parlando troppo e mi sto già più antipatico di prima. Ascoltate gente (anzi, leggete), compratevi il vinile, se proprio non ce la fate scaricatevelo, ma credetemi, procuratevelo perché Oscar Peterson Plus One è un capolavoro!
Alla prossima…
Sempre vostro Babar da Celestropoli