rose bianche di Fernanda Cataldo
le certezze cambiano, il mondo cambia
sono molto più interessanti i ritratti dopo
dalle etichette rassicuranti messe lì
sul momento
ho conservato la tua fotografia, fantasticando
mi chiedo se dove dormi puoi ascoltare
il canto grave delle cicale nel manto di rose bianche
della tua ultima dimora e nel sole brutale
che continua a riscaldare il tuo nome
alla chaux è quasi sempre autunno dalla finestra
avvolge le gru, l’ardesia dei tetti
i campanili e la verde lastra della foresta
quel tanto d’avvertire che tutto
rimane ancora vivo
impressione bizzarra prima della salita
tagliato il filo di lana si crolla a terra sfiniti
con l’affannoso fiato.
***
“Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta”.
Rainer Maria Rilke
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Salvatore Sblando, dalla raccolta “Ogni volta che pronuncio te”, La Vita Felice, 2015
***
…”io sono la tua mamma e tu sei la mia bambina: poi fra cinquanta, cento anni io diventerò la tua bambina e tu la mia mamma. questa, di tutte le bugie che mi furono dette, appena mi ripresi dal colpo che ebbi cadendo giù da quel cavolo in terra, e mi trovai in piedi a camminare e cascare, e poi rialzarmi per ricadere subito dopo, è stata la più dolce. questa bugia mi ha sorretto per anni anche se la notte, a volte, mi svegliavo con una preoccupazione pungente. sarei stata all’altezza, fra cinquanta o cento anni, di essere la mamma della mia mamma?”…
(Goliarda Sapienza)
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Il pranzo della Domenica di Massimo Botturi
Coprirsi bene, questo è il tuo credo, madre pura.
Seduta su porzioni di sedia, chiedi scusa
d’avere ombra e peso specifico dei vecchi
testimonianza vera, lo giuro
ho visto tutto
mi manca solo Dio e lo perdono.
Adesso mangia
le margherite tacciono al prato, come noi
che forse dimeniamo i pensieri troppo in fretta
per partorirli in brevi concetti.
Mangia e sogna.
Il figliolo delicato alla vita è un bel vitigno
un fiore di campagna un po’ concio
ma sincero, nel suo caramellarti la sera di racconti
con quello più di tutti a te caro.
Una mattina
che il gelo prese al cuore il Paese
non partiva, la macchina là in strada
già di seconda mano.
Spingemmo tutti e due con il fiato a mezza gola
sudando goccioline di brina;
ed ecco andare
singhiozzo dopo salto nel vuoto
lei si accese.
Finisti a terra sopra la ghiaia, calze rotte
e tutte le ginocchia di sangue.
Fu, quel tempo, la prima volta che tu piangesti
me davanti.
Il tuo pudore ruppe l’incanto, ti voltasti
ma io ti tenni il capo con grazia e commozione.
Non l’ho scordato mai, madre pura
e ancora duole.
***
Madre,
non trovo altro modo per iniziare a parlarti
se non attraverso la parola
come un rituale,
dandomi una forza tale e quale
ad un abbraccio – sfuggito
fra aghi e lenzuola
con quell’odore che resta pieno – nei polmoni,
come un marchio,
un tatuaggio che impregna fittamente oltre la carne.
Resti pallida su stoffa pallida,
immobile
perché nulla si può fare,
le mani racchiudono parole che non escono,
segni linee sulla carta
ma non riesci a scrivermi quel gesto finale
– affilato più di un coltello.
Non c’è amore più grande
se non quello di una figlia
verso la madre
perché ci lega sangue e saliva,
come una convivenza perfetta,
solitaria,
io e te,
quando ancora, fagiolino
crescevo
fino a farmi ossa e carne dentro di te.
Lì tutto è convivere,
fra costole e mammelle
dove intrecciarsi – nell’addio di gennaio.
(Antonella Taravella)