Dapprincipio avevo l’intenzione di scrivere una nota critica relativa alla secolarizzazione in vece consumistica del primo novembre, Ognissanti, che da quest’anno vede l’apertura di tutti i negozi, come in un qualsiasi giorno feriale. Un’altra conquista verso la deprivazione dell’identità e del ricordo, in voce di un (mal individuato) cosmo-mondo in cui defluiscono le scorie della tradizione per depurare la civiltà di un popolo in un unico fiume di non pensiero, un’onda regolare, asettica, che livelli tutto, su cui galleggiare in zattere fatte a forma di soldi e di consumo.
Avevo trovato l’esergo, il riferimento critico: era tutto pronto.
Poi ho cambiato idea.
Lascerò tracce dell’intenzione in questa breve introduzione, ma non avellerò con il mio pensiero critico la scelta di trasformare i due giorni dell’anno, il cui cuore è sempre stato nei millenni, assottigliare la soglia fra i vivi e i morti, arrestare la quotidianità del fare e del perdere tempo per ascoltare i ricordi dei propri cari, in una sterile dissertazione contro le ciniche necessità economiche di trasformare la terra dei sentimenti in un conto commerciale. Solo, fermo un ricordo preso in prestito da Orwell, quel cavallo Boxer che non capiva le scelte dei (capi) maiali ma obbediva, al suono del suo mantra – lavorerò di più – e che alla fine della sua vita, veniva trasportato via dalla Fattoria nel carro della mattatoio comunale.
La scelta del giorno in cui editare l’ultima parte delle poesie del padre è quindi indicativa della volontà di ricordare il propri cari. Fermarli, trasferirli ancora in quella vita silenziosa che è la memoria, ritrovarli nel silenzio o nella confusione di una tavola con un posto in meno, o nella luce di un lumino, per chi è dotato della grazia delle fede. E’ l’eredità più pesante da accettare, l’assenza. Ma è necessaria. Ed è una grazia averla avuta.
Per mio padre
(ancora vivo e per sempre)
Nei miei gesti impazienti
che raccolgono pioggia e sfide
per i giorni a venire torni
con le scarpe sporche di cemento e sabbia, chiuso
nell’ombra volata nel marzo dove crollava il mondo
e pur se la tua voce è sempre più lontana
vivo è il tuo sonno stremato sul tavolo la sera
il capo abbandonato tra le braccia, la bambina
che attendeva e ancora attende
che tu esca dal sonno perché tutto ritorna
e scriverlo oggi che fuori piove
e si ammollano le pietre nell’acqua
scriverlo oggi che ti so vivo
se ti rendo nel ricordo al nome
tenendo per mano la bambina
che aveva i tuoi occhi e i tuoi sorrisi sghembi
è esplodere verde di rami
è rendere amore all’amore
per chi dopo è venuto
e corre leggero, i piedini al sole.
Liliana Zinetti
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(sequela del padre)
1.
Nella notte del padre si contempla
il pharmakon l’olivo e il raro volto
e presso l’arco di pietra cimino
l’occhio dissecca e albeggia.
A lenimento della scala estesa,
echi dal sonno, unguenti, nello specchio
la barba incolta che vaneggia. Assedia
la casa della silente veste
mattiniera, usi d’acqua, disvela se profila
alterno fiotto oceano al dolore,
picco ad altare d’isola, foresto
al capo roccioso dei padri,
da valle moritura.
Enrico De Lea
*****
Dopo la morte di mio padre
le parole si sono ammantate di bianco
uscendo dal fango dell’ambiguità;
per un certo tempo hanno percorso soltanto
i sentieri del silenzio e dell’aridità;
sono state le voci dei volatili, introdotte
l’anno precedente dal gracidare assordante
delle rane e dei ranocchi, a ricondurre al volo
che percepisce parole, nel giardino inconsultamente e
caparbiamente reso asfissiante da Colei che
nella parola attende; cercando di forare la porta e
il Cancello che conduce agli altri Giardini, lavorando
con le mani, per prima cosa, imponendo confini secchi
alle bordure: le mani si sono infine congiunte
come guardando una battaglia che diventi arte
Patrizia Dughero
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Si fatica (ancora)
a sopportare il giogo del tuo vuoto
come i fardelli della minerale
passati all’assalto delle scale
mi stringo cubiti di lacrime
trapasso i vuoti negli specchi
i pettini stretti, nati dopoguerra
ombrati di nero.
Eppure il motivo per cui il verde
ancora mi appare vivo e naturale
è il ricordo dei tuoi occhi
che mi portavano bene e fortuna
- avevo un quadrifoglio io come genitore -
mentre gli inverni
non hanno più plessi di medici
mi strabilio
all’attaccarsi incessante
ai sudori del braccio di questa mosca.
Se sia la tua anima reincarnata, padre,
si rivelasse, invece di scansarsi al mio soffiare
imprecare invocare una profilassi
e ragionare sulla menzogna del perché
non trovo il coraggio
di seppellire (anc)ora finanche un insetto molesto
Meth Sambiase