Poesie e Racconti #54 – Dialogo tra Me e Leopardi

Da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 1 marzo 2013 letteratura, poesie e racconti Nessun commento

L: Alfine, eccoti.

M: Lascia perdere.

L: In fin dei conti, una resa dei conti con me era inevitabile.

M: Lascia perdere, ti ho detto.

L: Credi forse che subliminare la lacerazione del tuo io, qualificarlo tramite la forma letteraria di un dialogo filosofico con uno dei maestri dell’umanità, sia esercizio di un acneico barbarismo?

M: Nulla di così aulico. Un mediocre come me, di fronte alla tua statura poetica, deve soltanto fuggire. Non puoi continuare a discutere con uno che si informa sugli eventi del mondo tramite le stringhe paludate del Televideo.

L: Quella è una finestra sulla società dettata dalla tua penuria di mezzi.

M: Oh basta, sembri la mia auto-indulgenza. È una vita che suddetta penuria di mezzi mi netta da ogni fallimento. Sono solo un mediocre.

L: Permettimi la prima di una miriade di note saccenti con la quali cospargerò il tuo capo. A me sembra che questa reiterazione sulla tua mediocrità sia soltanto una posa, una pantomima con la quale lustro esistenziale dai (la commiserazione della propria inettitudine costituisce ormai un vero e proprio genere) all’incapacità che hai di accettare la tua medietà.

M: Voleva essere un’assoluzione? La medietà è mediocrità. Se devo proprio addentrarmi in uno psicanalismo d’accatto credo di avere l’idealismo di un grande spirito in un cervello da intellettuale di provincia. Woody Allen in Interiors ci fa liquidare per bocca della splendida Diane Keaton come gente che «ha tutti i tormenti artistici senza averne il talento».

L: Qual è il tuo problema? Devi necessariamente fare sfaceli sulla scena editoriale, fondare correnti, dare adito a dispute accademiche, essere un nodo gordiano della storia della letteratura italiana? Non scrivesti una volta che tutto ciò non ti importava, che il tuo sommo desiderio consisteva soltanto nell’essere letto? Il tuo ego ha sconfinato nel protagonismo?

M: Leopardi che legge i miei pasticci di parole, questa è follia narcisistica!

L: D’accordo, constatiamo entrambi la leggerezza di una simil iperbole. Adesso però radicalizziamo questo esercizio d’introspezione, sperando che il mio occhio sia una lente d’ingrandimento adatta ai tempi.

M: La scelta di un così vetusto oggetto che sa tanto di polvere del tempo, a fronte di laser e microchip moderni, dovrebbe farmi diffidare della scientificità della tua analisi.

L: D’altronde, concedimi che un morto giudica con più raziocinio rispetto a un vivo, libero com’è dai lacciuoli della sua era.

M: E sia.

L: Se ho ben colto la portata del tuo malessere…

M: …uno dei tanti. Essi sono innumerevoli quanto le critiche che ricevesti e continui a ricevere, di inveterato pessimismo causato dai disastri fisici del tuo corpo.

L: Ehm, come se il corpo dovesse essere un accidente nell’economia di un’anima, e non un tutt’uno. La tua capacità di tergiversare nell’attesa dell’assoluto è…

M: Postmoderna? Rinforzi anche tu la fila delle onanistiche definizioni di questa nostra epoca di decadenza?

L: Stavo per dire irritante. L’ansia del mio pronunciamento ti rende sferzante, a quanto vedo. Ti giova essere pungolato. Torniamo al punto di partenza: in definitiva, a dilaniarti è la vetusta (questa vendetta dovrebbe farti intuire quanto mi sia sentito dileggiato dalla tua affermazione poc’anzi. E poi, con una nota filologica a margine, perché un bel termine come “vetusto” è stato marginalizzato prettamente nella sua accezione ironica dal linguaggio odierno?) mancanza di corrispondenza tra carenza di mezzi e ricchezza di ambizioni. Quasi tutte le menti eccelse, in passato, hanno affrontato una simile fase.

M: Solo che in me questa fase dura tutta la vita. Un’esistenza di aspirazioni e poi la morte: c’è qualcosa di più sprecato?

L: C’è, ed è l’inazione che spesso consegue al tuo dilemma.

M: Proprio tu, il massimo poeta del tedio della vita, parli così? Immenso è il mio stupore.

L: Non ridurmi a un simulacro di arrendevolezza universale. Tutto cambia, perfino nella morte. Per quanto riguarda te, mi sembra che accetti la mediocrità del mondo ma non la tua.

M- Bella verità da epitaffio. Definitiva quasi quanto la celeberrima «Tutto è male».

L: Deprechi il tono sentenzioso degli aforismi?

M: Al contrario. Trovo che ci voglia del genio a racchiudere forsennate questioni ontologiche, religiose, etiche in un numero esiguo di parole. Ma al contempo trovo ributtante questa capacità che hanno i fatti, le domande più abissali, gli aneliti più ancestrali, di lasciarsi racchiudere in un’emissione di fiato così breve, in macchie d’inchiostro appena percettibili. «Tutto è male». Nulla di più esplicativo, incontestabile, incontrovertibile è mai stato prodotto dalla nostra razza. E sono bastate tre parole, dieci lettere, tredici caratteri per giungere a uno dei capolavori di ogni tempo.

L: Potremmo discutere per secoli di questo.

M: Ed è ciò che faremo quando anche io avrò smesso di lacrimare questa valle. Ora, invece, voglio dipanare meglio questo mio ragionamento.

L: Non aspettavo altro.

M: Hai proprio la tendenza a infiorettare questo dialogo. Comunque, nei suoi esiti più alti, l’aforisma funziona come un riassunto che riesce a chiarire con più efficacia e vigore ciò che l’originale dice. Eppure, è innegabile che spesso esso sia stato usato dai pressappochisti della peggior risma, dagli enunciatori di slogan bellamente perspicaci, di chi crede che per appianare una controversia secolare basti una frase incipriata di belletto retorico. Ma in fondo, almeno personalmente, non sono queste degenerazioni a preoccuparmi. Gli abbrutimenti basta riconoscerli e combatterli. Quello che di me stesso mi spaventa, mi blocca e funziona da indice dello stordimento caratteriale scatenante la mia apatia, è piuttosto il rispetto puro, sincero, che provo per le tesi che si dispiegano tramite studi accuratissimi, ricerche interminabili, sperimentazioni oltranziste.

L: È come se in filosofia ti piacessero al contempo i paradossi e i sistemi, la democrazia di una spiegazione accessibile e l’elitarismo verticistico di teoremi specialistici.

M: Mi piace tutto ciò che ha un’aura intellettuale, a costo di dover comprendere nella mia formazione teorie escludentesi l’una con l’altra. Le sinapsi del mio cervello fanno scattare reazioni di godimento a qualunque ludibrio artistico.

L: Esiste una soglia di sbarramento, una barriera all’entrata che permetta ad alcuni autori di essere esclusi dal tuo empireo estetico?

M: Ovvio, il gusto gioca la sua parte.

L: Forse, ciò che tu addossi alla scelta personale del gusto, è in realtà epistemologia dell’opera che stai affrontando, vi scorre sotterranea una sua valutazione politica, nel senso più bello del termine.

M: Ipotesi assurda, come quella che la mia voracità libresca sia, oltre che famelica, fortunata o addirittura mirata o financo oculata.

L: Tendi ad aggettivare molto.

M: Sinonimo di rozzezza causata dalla pochezza tecnica?

L: Voleva essere un’osservazione ingenua, nient’altro. Attacchi e difendi, non stiamo mica boxando.

M: Esisteva la boxe già agli inizi dell’Ottocento?

L: Non quella ufficiale ma i pugni si tiravano lo stesso. In realtà ha agito la mia passione per i neologismi, spia del mio retaggio filologico. Che dolore non aver partecipato alla svolta linguistica degli anni Venti del Novecento, ne avrei avuto di cose da obiettare.

M: Ecco, in me Saussure e Chomsky possono coabitare senza strappi. Non riesco a parteggiare per nessuno, non riesco a scegliere tra due eccellenze, anzi non posso farlo perché resto un mediocre. Mi rimane l’ammirazione incondizionata. Fossi nato donna, di aspetto piacente e comprovata perizia sessuale, mi sarei concessa ai migliori ingegni del Paese. Per non parlare degli inenarrabili piaceri che avrei donato a te, amato e odiato precursore di idee.

L: Lusingato. Chiariscimi però quest’ultimo punto, che promette un ulteriore interessante prosieguo.

M: Nemmeno tu lesini in aggettivi. Spesso voi fautori dello bello stile li bistrattate duramente ma la natura si esprime soprattutto in colori primari e la bellezza di ghirigori avverbiali o sostantivali può risultare artatamente artificiosa. Io mi limito al lato visivo del discorso perché le cose so soltanto vederle.

L: Hai concluso il tuo manifesto di stile?

M: Solo se ammetti che senza la mia reprimenda avresti così formulato il precedente intervento: «Concluso (participio in funzione aggettivale) il tuo manifesto stilistico (aggettivo qualificativo)?».

L: Ripeto: lo scontro verbale estrapola da te un sarcasmo di classe. Dovresti rivaleggiare più spesso con i tuoi simili, invece di rinchiuderti nel tuo ermo.

M: Tra poco ribatterò a quella che voleva essere una lode. Prima intendo chiarire la mia visione della natura dell’ossimoro. A proposito, trovo che negli ultimi decenni esso sia diventato una stucchevole moda.

L: Lo è sempre stato. Dai sofisti in poi, con la sua codificazione, l’arte retorica è stata vittima di crudeli mercimoni. Quindi, perché detesti i grandi spiriti di ogni tempo nella stessa misura in cui li elevi?

M: Perché miniaturizzate i lacerti di originalità che credo di possedere. Ogni qual volta leggo sulle vostre pagine quelle che credevo essere mie intuizioni novissime, cado nello scoramento più deprimente. Allora mi stringe una specie di cappio al cuore o alla gola, scegli tu in base al tuo gradimento figurativo. Mi sento un sottoprodotto culturale, una bambola di gomma a cui sia stata insufflato a sua insaputa un condensato del pensiero sino a lì creato, in una mistura certamente superficiale e grossolana. Le avventure del mio cervello sono puerili in confronto ai veri drammi dell’anima che vi hanno coinvolto. Nulla mi abrade, tutto in me scivola e lascia scia di lumaca, troppo viscida perché qualcosa vi possa far presa. Non possiedo un briciolo di tecnica, non so dare finitezza ai miei (sporadici) spunti, non riesco ad acquisire nemmeno un po’ di mestiere dopo anni di pratica. Purtroppo per me e per tanti altri, il talento non si acquisisce per osmosi.

L: Cioè?

M: Svario letture ed autori, generi e stili, eppure scrivo le stesse sciocchezze di dieci anni fa. Mi sembra di non imparare nulla, di non lasciarmi influenzare nemmeno dalle opere che prediligo, vedo tutto con l’occhio dello spettatore e mai dell’artista, sono un sarcofago di mediocrità, un aborto nato morto dalla bramosia di cultura, di flussi mal conciliantesi. Anzi, ancor più sinceramente, più procedo nella conoscenza di capolavori più la mia fiammella artistica va scemando. A diciassette anni avevo l’arroganza ignorante di chi crede che qualcosa di nuovo possa essere aggiunto alla storia. A ventisette, ho la modestia filosofica di chi ha constatato che nulla di originale potrà mai nascere dalla propria penna. Giocherò per sempre nei selciati campetti di periferia, le mie gambe non morderanno mai l’erba sintetica dei professionisti.

L: Gradevole metafora.

M: Se così ti aggrada, posso dire che il mio è il rimpianto del dilettante che sa di non poter competere con i professionisti, nonostante (saltuariamente) la mole di allenamento a cui si sottoponga sia identica.

L: La natura ha i suoi eletti.

M: Già, essa è la personificazione di come l’oligarchia sia la migliore forma di governo.

L: La natura pone e dispone.

M: Io direi che pone soltanto, incessantemente, il disporre mi sa tanto di consequenzialità, c’è in questo verbo una valutazione umana dell’operato cosmico. Ciò che gli uomini chiamano Morte, la Natura denomina Vita.

L: Nemmeno tu riesci ad astrarti dall’antropocentrismo. La Natura non ha bisogno di nominare nulla. Essa è indifferente e inconsapevole del suo agire, del suo esistere. Niente le giova, niente le nuoce. Sta qui, si limita ad essere ciò che è ed è tutto ciò che fa.

M: E noi?

L: Io e te?

M: Se dialogo con te vuol dire che gli altri non ci sono più.

L: Finalmente te ne sei accorto. Adesso vieni con me. Annega anche tu nel dolce mare dell’infinito.


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