Points of view: l'attesa - intervista a piero messina

Creato il 05 gennaio 2016 da Veripaccheri
"L'attesa" è stato uno dei film più belli e importanti della stagione che si appena conclusa. Abbiamo avuto la possibilità e il piacere di intervistare il suo regista Piero Messina.


Dopo l’anteprima veneziana “L’attesa” ha iniziato un percorso di distribuzione internazionale che ha permesso al film di essere visto in numerosi paesi del mondo. Per te deve essere stata una grande soddisfazione.
Sono molto contento di come il film viene accolto in giro per il mondo ed è una grande gioia vedere come persone appartenenti alle culture più disparate arrivino a provare le stesse emozioni. In Corea da dove sono appena tornato il film è considerato adatto a  un pubblico popolare e per questo proiettato in stadi che possono contenere fino a 8000 persone. Ebbene, in una di queste occasioni sbirciando nel buio mi sono accorto che le persone si commuovevano negli stessi punti in cui lo facevo anche io. A differenza che in Italia però le domande che ne scaturivano erano diverse, a testimonianza di come emozioni ugualmente condivise una volta razionalizzate posso condurre a considerazioni anche diametralmente opposte.
A proposito di emozioni  “L’attesa” ne è impregnato fino all’ultimo fotogramma. E’ solo un caso o è il tuo cinema ad essere concepito in questo modo.
Potrei dire che tutto il mio lavoro ruota attorno alle emozioni e che gli attori siano il tramite per raggiungerle. Per questo motivo sul set impiego la maggior parte del mio tempo con loro, aiutandoli ad arrivare all’autenticità dei sentimenti che il film vuole esprimere. Nel farlo mi comporto in maniera istintuale ma sempre nel rispetto del copione che per me è uno strumento fondamentale. Non credo a chi dice di poterne fare a meno. Per scrivere la sceneggiatura de “L’attesa” ho impiegato quasi tre anni curandola in maniera ossessiva ed effettuando numerose revisioni.
Qual è l’urgenza che ti ha spinto a realizzarlo
“L’attesa” nasce dalla mia storia personale e sicuramente rispecchia il rapporto con mia madre a cui come si capisce sono molto legato. Non è un caso se il corteo che si vede nel film termina proprio sotto casa mia, a Caltagirone, la cittadina che ho lasciato per venire a studiare a Roma. Tra parentesi la processione a cui prende parte il personaggio della Binoche è stata realizzata mettendo insieme una serie di appunti cinematografici relativi alle diverse che avevo filmato molto tempo prima dell’inizio del film e dai quali adesso Nicola vorrebbe realizzare un documentario.
Parliamo dell'attrice protagonista.   La scelta della Binoche è stata casuale nel senso che, rispondendo a Nicola Giuliano (produttore del film) a proposito dell’attrice che avrei voluto avere, ho fatto il suo nome senza pensare alla possibilità di ingaggiarla. Conoscendo la fama di Juliette che notoriamente è molto esigente nella scelta dei copioni abbiamo inviato la sceneggiatura al suo agente senza nutrire alcuna aspettativa anche quando quest’ultimo ci promise che glie l’avrebbe fatta leggere.
E com’è andata.
Improvvisamente un giorno mentre mi trovavo a fare dei sopralluoghi sull’Etna mi è arrivata una telefonata in cui la Binoche mi diceva che aveva appena finito di leggere il copione che mi voleva conoscere perché il testo l’aveva profondamente commossa. Arrivato a Parigi mi sono ritrovato nel suo appartamento a parlare del film mentre lei mi cucinava una ricetta polacca. Si era preparata all’incontro guardando i miei cortometraggi e ascoltando la mia musica che avevo postato su MySpace. Mi fece molte domande sulla genesi della storia, sui miei ricordi d’infanzia e sul perché l’avevo scritta proprio adesso. Quasi subito si è stabilita tra noi una voglia di stare insieme che è stata la stessa che ancora ci accompagna durante la promozione del film.
Comunicavi con lei in francese.
Non conosco una parola di francese però sapevo a memoria le battute che la Binoche avrebbe pronunciato. Con lei parlavo inglese mentre con Lou era più difficile perché parla solo la sua lingua. Devo dire che alla fine questa limitazione ha finito per aiutarmi in quanto mi ha imposto una precisione e una sintesi che non avrei mai raggiunto con il nostro idioma.
Vedendola recitare nel tuo film non si può non pensare a “Film Blu” di Kristof Kieslowski. Ci chiedevamo come hai fatto ad avvicinare una qualità di questo tipo.
Mi fa piacere che nominiate il grande regista polacco perché riguardandosi sullo schermo è stata proprio la Binoche a menzionarlo in riferimento al ruolo da lei ricoperto nel mio film. Una volta sul set trovare l’intesa non è stato facile perché Juliette pur avendo una grande tecnica ama immedesimarsi nel personaggio e nelle emozioni che lo attraversano. In questo caso dovendo interpretare una donna che aveva perso il figlio ogni volta che giravo lei non riusciva a trattenere le lacrime. Era invasa da quel dolore e non riusciva a trattenerlo. Il che non andava bene perché volevo che questa sofferenza fosse visibile ma attonita per poi esplodere solo nelle sequenze finali. Nei primi tre giorni di riprese gestirla mi è stato praticamente impossibile ed a un certo punto mi sono reso conto che l’intesa iniziale era sparita. Ci siamo fermati e ne abbiamo parlato. E’ stato un confronto franco e diretto e quando Juliette mi ha detto “Piero io non recito io sono” è stato impossibile rimanere calmi e ci siamo messi entrambi a urlare.
Visti i risultati mi verrebbe da dire che sia stata un alterco salutare.
Alla fine abbiamo raggiunto un compromesso che dava a lei la libertà di esprimersi liberamente nei primi quattro ciak e a me la possibilità di ripetere le scene fino a quando lo avessi ritenuto necessario. Ho girato ogni sequenza ripetendola fino a quaranta volte in modo che Juliette riuscisse progressivamente a stancarsi del dolore che la pervadeva e riuscisse a darmi quello che volevo. E’ stato un lavoro di sottrazione perché a me interessa arrivare alla radice dell’emozione che voglio descrivere. Non è un caso che nel montaggio finale i take utilizzati siano stati quasi sempre gli ultimi, quelli in cui la Binoche non aveva più la forza di reagire.
A Lou De Grange che nel film è Jeanne la fidanzata di Giuseppe come sei arrivato.
Dopo sei mesi di casting e all’ultimo provino. In realtà li avevo finiti ed è solo per educazione che ho accettato di vederla. Ero molto stanco e voglioso di ritornare in Italia e lei arrivò pure in ritardo all’appuntamento. Appena la vidi entrare mi sembrava fisicamente inadatta. Io ero alla ricerca di un personaggio fragile e delicato a Lou non aveva nulla di quel candore che avevo in mente. Il provino però si è lentamente trasformato in una prova ed a quel punto ho capito che a cambiare doveva essere il mio personaggio che grazie a Lou sarebbe stato forte e animalesco come lei. Lou proviene dal teatro ed è un’attrice a cui non manca la tecnica. Ma nel film a venire fuori è la sua forza che riesce a essere alla pari con quella di Juliette.
A partire dai personaggi per continuare con i sentimenti presenti nella storia, “L’attesa” mi sembra un film profondamente femminile. Sei d’accordo.
Per un regista è importante innamorarsi dei suoi personaggi. A quel punto non c’è più nessuna distinzione tra maschile e femminile e come regista io sono in grado di descrive qualsiasi tipo di personalità.
Il tuo è un cinema in cui la bellezza della cornice esalta il significato dei contenuti. A questo proposito ciò che colpisce è la qualità delle immagini in cui convivono astrazioni barocche e geometrie rinascimentali.
Uso la macchina da presa in maniera istintiva per cui arrivo sul set e mi ci vuole un attimo per sapere dove collocarla per girare in maniera ottimale. Di costruito nella composizione delle immagini c’è poco niente, tutto viene fuori in maniera naturale. Quello di cui mi occupo maggiormente è la resa degli attori. Una volta definiti in sede di preparazione agli aspetti dedico pochissimo tempo perché come ti dicevo ragionare per immagini è una cosa che mi viene spontanea e su cui rifletto il minimo indispensabile.  
Quanto a contato la tua esperienza come aiuto regista di Paolo Sorrentino.
Paolo l’ho conosciuto perché aveva visto un mio corto proiettato al festival di Taormina ed essendogli piaciuto mi voleva incontrare . Lavorare con lui è stato un apprendistato importante perché sono riuscito a rubargli qualcosa della sua arte. A differenza di me è velocissimo a girare e molto attento agli aspetti estetici; arriva al dunque in non più di quattro o cinque take. Un aspetto che mi piace molto di lui è la mancanza di condizionamenti che gli permette di concepire certe scene senza preoccuparsi di quello che potrebbe dire la critica. Anche lui è un regista emozionale ma arriva al dunque attraverso un registro diverso; non ho la sua esperienza ma cerco di essere altrettanto onesto. Ogni scelta che ho fatto nel mio film è stato il risultato di quello che sentivo e mi sono fermato solo nel momento in cui ho avuto la certezza di aver colto ciò che volevo.
Parliamo della fotografia del film che contribuisce non poco a far sentire lo stato d’animo dei personaggi.
All’inizio il direttore della fotografia avrebbe dovuto essere Daniele Ciprì che è innanzitutto un amico e che ai tempi in cui filmai le processioni mi aveva accompagnato durante le riprese. Al momento di girare però Daniele si era accordato con Bellocchio per “Sangue del mio sangue” mentre nel contempo Juliette che pure era impegnata a teatro con Antigone e che era in partenza per gli Stati Uniti era riuscita a liberarsi per il solo mese d’agosto. Da qui la scelta di Francesco Di Giacomo che devo dire è stata istintiva e non dettata dai lavori che aveva fatto in precedenza. Ci siamo confrontati su quello che volevo e su come lui lo avrebbe realizzato tecnicamente. Per quanto mi riguarda desideravo trovare un sapore antico e insieme a lui abbiamo pensato di lavorare con la luce artificiale e con un sistema di quattro torrette alte circa 30 40 metri che la proiettavano all’interno della villa attraverso i cosiddetti Jumbo, proiettori potentissimi andati oramai in disuso e per questo adatti a ricreare qualcosa che non esiste più.
All’inizio del film una panoramica ci mostra la macchina in cui viaggia Jeanne attraversare un paesaggio dominato da colori neri e grigi che fanno da presagio a ciò che attende la ragazza.
Volevo che il paesaggio facesse da cassa di risonanza dei sentimenti dei personaggi. Di fatto la Sicilia riflessa sullo schermo è un luogo dell’anima perché è la combinazione di diverse località. Così le pendici dell’Etna cupe e spettrali dovevano rappresentare l’anticamera di quello che aspettava  che stava per toccare alla ragazza e segnalare il passaggio dal suo mondo colorato e pop a quello arcaico e ancestrale del territorio siciliano.
Di Giuseppe scegli di non dire niente, a parte i piccoli dettagli ricavati dai libri e dai dischi che vediamo nella sua camera.
Premesso che la camera di Giuseppe è stata ricostruita con le cose che realmente mi appartenevano quando vivevo in Sicilia è solo alla fine che ho deciso di non mostrare il personaggio in carne e ossa. Mancavano due giorni all’anteprima di Venezia e riguardando il film sentivo che se ne avessi mostrato il volto avrei fatto perdere al film il suo senso metafisico. Così, senza dire nulla a Nicola ho deciso di togliere tutti i primi piani i Giuseppe. E’ stato un gesto di incoscienza davvero raro per come è avvenuto anche perché chi lo interpretava  (Giovanni Ansaldo )nel film era stato davvero bravo. Alla fine questa scelta mi ha ripagato perché il risultato è esattamente quello che avevo in mente e per questo devo ringraziare il mio produttore che film dal principio ha creduto in me, sostenendomi anche laddove si è trattato di rischiare dal punto di vista economico e sto parlando della decisione di non doppiare il film. Pur sapendo che avremmo perso qualcosa in termini di pubblico ha rispettato la mia decisione di lasciare che i personaggi si esprimessero nella loro lingua.
Nella sequenza del funerale con cui comincia il film i movimenti della macchina da presa stabiliscono un legame tra Anna e il crocifisso la cui consistenza materica sembra riempire il vuoto lasciato da Giuseppe fino al punto di trasfigurarlo.
E’ esattamente quello che intendevo trasmettere con quelle immagini ed è proprio per questo motivo che cercavo un crocifisso che avesse la fisiognomica di un corpo giovanile. Non avendolo trovato ho pensato di realizzarmelo da solo, disegnandolo e poi filmandolo in 3D. Di fatto il crocefisso che vedete sullo schermo non esiste nella realtà ma dalla percezione delle immagini sembra esattamente il contrario.
 Da come inserisci le figure nello spazio scenico si capisce che la loro collocazione non è casuale.
A parte la camera di Anna tutte le altre stanze sono state realizzate nelle stalle della villa che sono diventate dei veri e propri teatri di posa. Senza sapere il perché volevo che le figure umane fossero inserite all’interno di ambienti che potessero esaltare gli spazi vuoti. Per questo avevo bisogno di soffitti più alti di quelli della casa in questione e quindi della necessità di ricrearli in studio. Solo iù tardi ho capito che il contrasto tra il dolore di Anna e quello spazio inutile poteva essere qualcosa di poetico, oltre ad avere la conferma che almeno al cinema la precisione te la devi costruire artificialmente.
Quali sono, se ne hai, i tuoi registi di riferimento.
Sono sincero quando dico che quello che faccio è semplicemente l’elaborazione di ciò che vissuto e di cui mi sono emozionato. D'altronde il narratore è colui che elabora ciò che ha visto e per me funziona esattamente così. A parte questo se mi chiedi il nome di un regista dico l’Aleksandr Sokurov di “Madre e figlio” che ai tempi del film sono andato a scovare in Russia solo per testimoniargli la stima che nutrivo nei suoi confronti. Quando mi ha riconosciuto,  a Venezia dove anche lui era in concorso, è stato un momento che difficilmente dimenticherò.  
Visto che in qualche modo ha creato l’occasione perché ci potessimo incontrare volevo chiederti di dirci qualcosa della prima edizione del Round - Trip Festival A/R dedicato a Italia e Germania a cui hai appena partecipato
E’ stato molto bello che un festival del genere si sia potuto fare così come l’avervi partecipato, perché oramai in Italia il cinema è frutto di coproduzioni che però non diventano mai l’occasione di una condivisione artistica. Diversamente la manifestazione organizzata dal cinema Kino di Roma ha offerto a me e ai registi italiani e stranieri che vi hanno preso parte l’opportunità di stabilire un legame transnazionale che personalmente mi ha permesso di confrontarmi con un cinema diverso dal mio, e di conseguenza di pormi domande che normalmente non mi faccio quando sono sul set. Se aggiungiamo che tutto ciò è avvenuto nel corso di un dibattito a cui il pubblico poteva accedere liberamente, beh devo dire che questo è davvero il massimo per spettatori e addetti ai lavori. Adele De Blasi, Carlo Cerofolini

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :