Non c’è
dubbio. Le intuizioni di Poletti sono talmente avanti, progressiste, riformiste,
che in realtà vorrebbero riportarci nei brumosi slums della Londra di fine XVIII secolo. A tal punto che solo
Crozza potrebbe commentare le sue ultime sparate senza scadere nella volgarità. Il Ministro del Lavoro ex Presidente della Legacoop, di fronte a
una platea di studenti la cui ambizione, magari, non è esclusivamente quello di
diventare capitani d’industria senza scrupoli o servili ingranaggi di un
meccanismo che li sovrasta trascendendoli (erano, in realtà, gli aquilotti di Confindustria
marcati Luiss), ha detto che: “l’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non
permette l’innovazione”.
E ancora, impudicamente, non lasciando nulla
d’implicito al suo intercalare: “dovremmo immaginare un contratto di lavoro che
non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’apporto
dell’opera”. Poletti, di fatto, vorrebbe tornare al cottimo, quella modalità di
retribuzione, cara anche al minatore Stakanov, per cui il salario è
direttamente proporzionale al rendimento del lavoratore: più produci e più ti
pago!. Se non altro il Ministro, tanto per non sbagliare squadra, dimostra di
aver letto il Capitale di Marx: “il
lavoro a cottimo è il più appropriato per il modo di produzione capitalista”.
Peccato non si sia accorto che quella di Marx era una critica negativa (ma in
fondo per Poletti studiare non serve, e sembra dimostrarlo quotidianamente!).
Il
cottimo, insomma, almeno nell’idea di qualche ultras capitalista e dello stesso
Poletti, dovrebbe favorire l’efficienza lavorativa, la produttività e i
profitti di quelle tante aziende filantrope particolarmente attente al
benessere del collaboratore di turno, come la Ducati (Audi) di Borgo Panigale,
ad esempio. Non a caso, forse, il cottimo si coniuga soprattutto con quelle
attività lavorative che possono essere facilmente quantificate, ripetitive e
cronometrabili, alla Tempi Moderni di chapliniana memoria: l’innovativa, almeno
per il periodo in cui venne introdotta, catena di montaggio, specie quella
fordiana che, dall’inizio del ‘900 ad oggi, ha permesso una crescita economica
senza precedenti, favorendo l’idea che il lavoro umano fosse una merce
misurabile al pari di tutte le altre.
Eppure
Max Weber, che fu privilegiato spettatore dei cambiamenti nella società a
cavallo del XX secolo, in controtendenza coi progressisti della nostra epoca,
osservò: “i lavoratori risposero
all’aumento dei cottimi non con un aumento, ma con una diminuzione del lavoro
giornaliero… il maggior guadagno li attirava meno del minor lavoro”. In
fondo, se progredire significa ormai passare da un monolocale ad una villetta a
schiera, guadagnare sempre più denaro per ostentare l’acquisita capacità di
comprare qualsiasi cosa, anche i rapporti umani se necessario, quale bisogno sceglierebbero
oggi gli attuali lavoratori? Ma se
l’uomo tradizionale, pre-moderno, pre-industriale, dimostrava “per natura” di
non voler guadagnare sempre più denaro, ma semplicemente vivere secondo le sue
abitudini e guadagnare quel tanto che era a ciò necessario, l’homo oeconomicus dei giorni nostri, in
base ai suoi acquisiti principi “democratici”, potrebbe invece decidere di
spaccarsi la schiena, solo per compiacere il datore di lavoro, l’economia di
mercato, e la propria vuota vanità.
Almeno
oggi siamo liberi di decidere autonomamente se prostrarci supinamente ai
desiderata economici e diventarne flessibili schiavi, o se invece scegliere la via del
buon senso e dell’umanità, lasciando Poletti e i suoi ammiratori alla pollicultura
in batteria.