Policlinico di Bari, ore 19,30 di domenica 12 febbraio. Sta piovendo a dirotto e fa davvero molto freddo quando arriviamo al pronto soccorso dove accompagniamo mia madre che non si sente affatto bene: ha 67 anni, e’ un soggetto a rischio ictus e ha la pressione arteriosa che supera i 200.
All’accettazione ci assegnano un codice giallo: e’ Urgenza, almeno sulla carta. Mia madre ha il volto che tende al fucsia, i suoi occhi sono iniettati di sangue. Le gambe le tremano e non riesce a parlare. Passano dieci minuti e nessuno ci chiama. Non c’e’ alcuna emergenza, cioe’ nessun codice rosso fuori. E’ tutto tranquillo, gli infermieri ridono e scherzano fra loro. Uno gioca addirittura col cellulare. Iltouch screen e’ pur sempre il touch screen. E’ proprio a lui che, dopo aver atteso altri dieci minuti abbondanti , faccio notare che abbiamo una certa ‘Urgenza’, ben scritta anche sul volto di mia madre.
”Sa – mi risponde sorridendo con una faccia da ebete – evidentemente negli ambulatori (ce ne sono cinque in tutto nel pronto soccorso) il personale e’ molto occupato. E comunque – prosegue – facciamo le corna, ma se succede qualcosa state gia’ al pronto soccorso”.
Dopo queste parole mantengo la calma per non mettere lui in condizioni di aver bisogno urgente di un medico.
Aspettiamo ancora: passa mezz’ora buona e mia madre diventa sempre piu’ rossa. Ha vomitato e ha un forte dolore al torace che si irradia al braccio sinistro: tutti i sintomi dell’infarto, penso, pur non avendo una laurea in medicia. Quando sto per arrabbiarmi davvero, finalmente la chiamano. Pochi secondi e la fanno uscire: la pressione e’ aumentata ancora ma non le fanno neppure un elettrocardiogramma. Anzi, alla richiesta di farne il medico risponde: ”Guardi che il nostro compito e’ farle abbassare la pressione, poi andate dal medico di famiglia”. E infatti le danno soltanto due goccine da tenere sotto la lingua per mezz’ora, nel corso della quale non sappiamo se mia madre sta avendo un infarto, prima di misurarle nuovamente la pressione.
Da questo momento in poi succede di tutto.
Accompagnato dal personale del 118 arriva un senzatetto straniero, ubriaco, che parla molto bene l’italiano sia pure con un accento polacco. Chiede a gran voce viagra, marijuana, cocaina e anfetamina. E subito arriva lo stesso infermiere che giocava col cellulare. Comincia a fare battute a sfondo sessuale senza neppure preoccuparsi della presenza in sala di molte donne, anziane e adolescenti: ”Non sapete mettere neanche un preservativo – urla a un giovane addetto del 118 – andiamo a scopare stasera?”. Allora il senza tetto dice: ”Io sto quasi per morire e voi ridete?”. E subito dopo lamenta di non riuscire piu’ a respirare: ”Datemi ossigeno”. A questo punto l’infermiere-comico si vanta col clochard del suo curriculum di ”dottore in scienze infermieristiche”, e suggerisce un rimedio per respirare meglio: ”Ora te la do io l’aria fresca – dice mentre afferra la sedia a rotelle su cui e’ seduto il senzatetto – vieni con me”. Lo trascina fuori dall’uscita di sicurezza, al centro della sala d’attesa del pronto soccorso, fqcendolo gelare per qualche minuto all’aria aperta. E nella sala d’attesa molte persone cominciano a patire il freddo per questa simpatica trovata del paramedico giocherellone.
Intanto mia madre diventa sempre piu’ rossa. La fanno rientrare e le misurano nuovamente la pressione. Non e’ scesa. Le mettono una flebo che, pero’, per i primi cienque minuti non funziona: non ne scende neppure una goccia. Mia madre chiede chiarimenti all’infermiere che, alquanto stizzito, le risponde: ”Uffa, signora, quante domande!”. Salvo poi scoprire che si era dimenticato di ruotare la levetta che fa scendere il flusso della flebo.
Intanto arriva il turno del senzatetto. Pochi istanti nell’ambulatorio e la diagnosi e’ pronta: ”E’ venuto qui a dormire”. Quindi, nonostante non ci siano barelle disponibili per chi sta davvero male, lui viene accompagnato nell’ambulatorio cinque, per dormire proprio su una bella barella arancione. Restera’ li’ per tutta la notte, non prima di aver fumato l’ultima sigaretta che cerca barcollando nei corridoi. Prima di chiudersi nella sua stanza, saluti tutti con un ”Lasciatemi cantare”. E il Pronto soccorso e’ trasformato in un hotel.
Siamo tutti discpiaciuto quando a disturbare il suo sonno arrivera’ un infermiere (o inserviente, non si e’ capito) che si e’ sentito male poco prima di cominciare a lavorare. E’ molto preoccupato, si lamenta. Probabilmente sa cio’ che lo aspetta.
Mia madre rientra ancora. Questa volta da sola: ”I parenti – dicono – non possono piu’ entrare”. Non facciamo storie, nonostante un parente possa entrare e come. Sono ormai le 21,30 e la pressione non e’ scesa. Eppure i medici le intimano: ”Smettila di fare la spaventata, che spalanchi a fare gli occhi?”. Del resto con la pressione oltre i 200 per ore, la faccia viola, le placche nelle arterie, i tremori ovunque, un rischio di ictus, non c’e’ mica bisogno di spaventarsi.
Tuttavia ad allietare la ‘compagnia’ ci pensa l’arrivo di un giovanotto dall’aspetto taurino: si chiama Nicola, e’ piccolo e tozzo, ha il cranio rasato, lo sguardo alla Clint Eastwood e molti segni di percosse ovunque sul collo e sul viso. Indossa un pigiama blu, calza pantofole estive, e nei calzini neri tiene alcune monete e pochi soldi di carta. Sulle spalle un maglioncino di lana giallo. Con se’ ha una busta che non perde mai di vista e fa fatica a parlare. Trema visibilmente. Lo hanno portato al pronto soccorso da Villa Serena, una clinica barese dove ‘curano’ chi ha disagi mentali. Dice di essere stato picchiato da alcuni infermieri: mostra i segni sulle parti del corpo dove e’ stato colpito e il buco, sul braccio, di una iniezione alla quale si e’ probabilemte opposto. Restera’ al pronto soccorso per molto tempo. E si arrabbiera’ sempre di piu’, ora dopo ora, perche’ nessuno sapra’ dirgli dove andare a dormire. Unico suggerimento per lui sara’ quello di addormentarsi li’, sulla panchina.
E saranno in molti a deriderlo, soprattutto infermieri, anche quando dal suo cellulare ascoltera’ Gigi D’Alessio, l’unico in grado di calmarlo.
Verso la mezzanotte, nonostante tutto, un improvviso clima di festa pervade il personale sanitario: gli infermieri cominciano a urlare nei corridoi, chiamandosi con strani soprannomi. Uno su tutti: ”Ue’ Banan”. E alle loro ulra si unira’, poco dopo, quello che diventera’ il ‘motivetto’ della serata: ”Ao’, io ho sonno, gli occhi si chiudono – dira’ inutilmente Nicola per ore – fatemi venire a prendere o chiamo i carabinieri”.
A rovinare per un attimo la festa, pero’, ci pensa una ragazzina che, dopo aver vomitato diverse volte sulla panca nella sala d’attesa, sviene. Aveva anche lei il codice ‘Urgenza’. Ma le urgenze, al pronto soccorso di Bari, non hanno alcuna precedenza. I suoi genitori perdono la pazienza: prendono la ragazzina in braccio e aprono la porta dell’ambulatorio: ”E’ svenuta”, dicono in preda al panico. Ma il medico, con calma, replica: ”E mo io dove la metto?”.
A dare un po’ di pepe alla serata, oltre a un furioso litigio fra medici e infermieri nell’ambulaorio due, le stridenti voci che, di tanto in tanto, dagli altoparlanti chiamano infermieri e ausiliari, ora in un ambulatorio ora in un altro: in molti casi gli infermieri sono fuori a passeggiare ma temporeggiano qualche minuti prima di entrare. Gli ausiliari, invece, ”non ce ne sono ancora” dice un infermiere invitando una vecchina a spingere la carrozzina del suo anziano marito fino alla sala raggi. Mentre mio padre si affretta ad aiutare una anziana signora che non riesce a evitare le la mamma 90enne cada dalla carrozzina.
Mia madre rientra nell’ambulatorio: finalmente decidono, dopo qualche ora di pressione altissima, che e’ il caso di farle un elettrocardiogramma e un prelievo di sanque.
La pressione non scende.
Poco dopo arriva un detenuto accompagnato da alcuni poliziotti penitenziari. Un ambulatorio sara’ dedicato a lui, tra sorrisi compiacenti di un addetto alal vigilanza. Il detenuto restera’ per molto tempo in quell’amulatorio, fino a quando non decideranno di trasferirlo in un reparto del policlinico, forse per un ricovero. A questo punto uno dei poliziotti chiede di rallentare le operazioni cosicche’ possano arrivare altri agenti a dar loro il cambio per il fine turno. ”Non c’e’ problema – risponde un infermiere – ora facciamo con calma”.
La flebo di mia madre e’ quasi finita, il suo rossore si attenua. Rientra nell’ambulatorio per l’utima volta: la manderanno a casa nonostante la pressione sia ancora alta.
E’ l’1,30 del mattino. Finalmente andiamo a dormire e pensiamo che siamo davvero fortunani. Nicola, poverino, e’ ancora li’, e il suo grido ci accompagna verso l’uscita: ”Ho sonno, aiutatemi, mi si chiudono gli occhi”.