Sulla bellezza si sono scritti milioni, se non miliardi, di trattati. Io, che nonostante gli sforzi per migliorarmi continuo a rimanere un grande ignorante, non ne ho letto manco uno, eppure è una questione su cui mi capita spesso di interrogarmi. E' innegabile che la bellezza e la sua contemplazione faccia parte del nostro vissuto quotidiano e che, in minima parte, ci condizioni nelle nostre relazioni. E non venite a dirmi che "eh ma no, conta come si è dentro e non come si è fuori" perché quelle sono cose che si arrivano ad apprezzare col tempo, con l'esperienza accumulata accanto a una persona. Il colpo di primo occhio è dato principalmente da un fattore fisico ma, ironicamente, anche questo si dipana attraverso le ottiche prese in considerazione - ad esempio il fascino, che trascende quella che è la mera bellezza. Discorso contorto, vero? Sì, perché per quanto me ne sia interrogato, ancora non ho ben capito cosa sia la bellezza, come d'altronde non ho capito una beata fava di tutto il resto. L'unica cosa che mi sembra di aver compreso è che la bellezza è soggettiva e che una certa valutazione sembra essere sembra dettata dalla soggettività dell'individuo preso in questione. Forse è per questo che finora solo mia mamma mi ha detto che sono bello.
Nasser Ali è un virtuoso violinista, il cui strumento però viene fatto a pezzi dalla moglie. Prova così a sostituirlo, spingendosi in ogni dove per trovare un degno sostituto, ma fallisce nel tentativo. Decide così di lasciarsi morire nel proprio letto. E in quegli otto giorni di agonia, ripercorrerà tutta la propria esistenza...
Ho iniziato questo post con quell'astruso discorso sulla bellezza perché è proprio la bellezza a essere strettamente collegata a questo film, una delle pellicole che più mi ha messo in difficoltà nella valutazione in tutta la mia esistenza di spettatore. Perché è indubbio che siamo davanti, anche se non a un capolavoro, a un film buono, messo in scena in maniera molto pregevole e che cerca di sviscerare delle tematiche non ininfluenti e di un certo peso. Un prodotto, sempre che di prodotto si possa parlare quando si parla di arte, degno di essere visto e che porta a delle dovute conclusioni. Un film bello, senza dubbio. Eppure un film che non mi ha mai convinto appieno, nonostante mi abbia davvero affascinato con la sua atmosfera e la singolarità di diverse sequenze. Potrei far valere la legge del "i gusti son gusti e i miei son quelli giusti" ma, dato che accontentarmi non mi piace molto, ho cercato di porre una mia analisi, per quanto la cosa possa valere, a quest'opera seconda di Marjane Satrapi, anche a questo giro aiutata dall'amico e collega Vincent Paronnaud. Dopo Persepolis quest'energica donna prende in esame un'altro suo omonimo fumetto (lo so, si dovrebbe chiamarlo graphic novel, ma è un termine che mi sta molto antipatico) e lo traspone su grande schermo. A questo giro, pur facendone ricorso in una delle sequenze che ho preferito, si lascia quasi totalmente l'animazione per concentrarsi sul live-action, con attori e scenari in carne e ossa, cosa che se inizialmente poteva farmi dubitare già dopo soli pochi minuti è riuscita a convincermi appieno. Ci si prendono le dovute libertà dall'opera originale, così come era stato per l'esordio cinematografico di questi due artisti, rifuggendo ogni specularità come è avvenuto con Sin city (sarebbe stato davvero problematico farlo, dato che lo stile di disegno della Satrapi è molto essenziale) e utilizzando l'inquadratura al meglio delle proprie possibilità compositive. Quella che ne esce è quindi una storia di negazioni, perché tutti i personaggi che si muovono fra le proprie fila hanno subito una privazione dalla vita e, soprattutto, dalla terra che abitano. A Nasser Ali è stato proibito di sposarsi con la donna che ha amato e la donna con cui è stato costretto a convenire a nozze non ha mai potuto godere del suo amore, così come ai suoi cari è impossibile fare alcunché per aiutare il musicista dal cuore infranto. Ma è anche, com'era anche la biografia della stessa Satrapi, un atto d'amore e di accusa verso il proprio paese, dal quale è stata cacciata (e nel quale è ancora cittadina non gradita) e i cui duri regimi sono, in grossa parte, l'origine di tutti i guai che hanno dovuto patire i protagonisti. C'è anche una bellissima stoccata all'America e alla sua cultura dell'ingrasso, la stessa America che ha contribuito al colpo di stato iraniano e che lungo la strada ha sparso solo e unicamente i suoi interessi. L'unico paradiso in terra nel quale è possibile rifugiarsi è quello interno alla propria testa, ed è per questo che il film, dall'inizio alla fine, parla di una terribile e lenta sconfitta verso un mondo che ingloba tutto e che sputa fuori solo i resti. Tanti temi, forse troppi, ed è per questo che la pellicola, che ho comunque apprezzato per la sua originalità e profondità, non è riuscita a piacermi fino in fondo. Forse perché le aspettative dopo Persepolis erano troppo alte, forse perché i temi in effetti sono un po' troppi e ingolfano la visione complessiva. o magari anche perché io sono una persona molto limitata e non ne ho compreso del tutto la totale struggenza. Ma purtroppo per me il film è stato questo, un insieme di bellissimi momenti che però, una volta uniti, non mi hanno dato il risultato sperato, o che non sono stati in grado di trascinarmi dove avrebbero voluto. Ma rimane un film che, oltre alla sensazione di manchevolezza, mi ha impresso nella memoria delle sequenze davvero molto belle e che difficilmente dimenticherò. Anche questa è, insieme alla sua debolezza, la sua forza. Per un film che forse, proprio per questo sua lato fallimentare, si dimostra molto più umano di tanti altri.
Raggiunge la sufficienza - e la supera, anche - grazie alla somma e alla differenza delle sue parti. E a quella malinconia di base alla quale non so resistere.
Voto:
★★★