A diciassette anni dalla sua effettiva uscita in Giappone e sulla scia della distribuzione di altri cult nipponici, Pom Poko (1994), con una proiezione-evento, giunge ufficialmente in Italia. E, come per ogni altro film dello Studio Ghibli, l’anno di produzione conta poco: forma e contenuti ci pongono di fronte ad un’opera sempre attuale.
I tanuki sono una specie particolare di cane procione: alcuni di loro, infatti, hanno la capacità di trasformarsi. Con il dono della metamorfosi possono produrre forme semplici ma anche estremamente complesse, vestendo ora i panni di un animale, ora di un oggetto, di un paesaggio o di un essere umano. I tanuki vivono in gruppo sulle colline di Tama e sono esseri burloni, simpatici, ingenui e dediti al divertimento. Tuttavia, nel trentunesimo anno dell’era Pom Poko, sono costretti a impegnarsi nell’ardua via del trasformismo per opporsi a qualcosa di terribile: gli umani stanno espandendo le loro città e per questo disboscano, distruggono montagne, umiliano la natura. I tanuki rischiano di trovarsi privati del loro habitat e di vivere allo sbando, tra automobili impazzite e umani assassini. Il trasformismo è l’unica arma che permette loro di difendersi e attaccare, a volte in modo violento, a volte in modo scherzoso, ma in ogni caso con scarsi risultati. Di fronte alle distruzioni dell’uomo si può ben poco.
Pom Poko, così, espone un tema assai caro allo Studio Ghibli e a molti autori nipponici (basti citare Hayao Miyazaki): il rispetto per la natura. Tale tema è affrontato con una profondità inusuale e, soprattutto, con la riconsiderazione del rapporto uomo-natura. Si parte dal presupposto universale che l’uomo non è opposto alla Natura. L’uomo fa parte della Natura e da essa proviene. Meglio: l’Uomo è la Natura. Perché allora distruggerla? Nell’immaginario giapponese la Natura è quasi divinizzata, sempre rappresentata con sacro rispetto attraverso varie forme culturali. La Natura è narrata dalla Cultura che ha il compito di mostrarne la bellezza e l’importanza. I tanuki esaltano questo concetto, che trova compimento nella miglior sequenza del film, quando, con una sfilata di simboli e icone giapponesi, si esprimono nella più elevata opera di trasformismo. Spiriti, demoni, oggetti votivi, statuine, alberi di ciliegio, animali sacri prendono forma di fronte agli occhi degli uomini, in un crescendo di elementi fantasiosi che si fanno reali. Alla fine di questa sequenza visionaria e incantatrice, un demone si trasforma in una gigantesca onda che trascina via gli abitanti di Tokyo. L’immaginario diviene realtà tangibile, il monito contro gli umani si tramuta in punizione e la riflessione del film dimostra di possedere una lungimiranza amara e scioccante.
Takahata si dilunga un po’, esplicitando sin troppo gli intenti, azione forse giustificata dallo scopo educativo del film. Tuttavia la sua operazione formale risulta piuttosto intelligente: infatti, il tributo alla cultura giapponese, alla natura e al trasformismo dei tanuki diventa un modo per riflettere sul disegno. Il regista si cimenta con ogni sorta di stile e di tratto, proponendo un viaggio affascinante lungo l’intera iconografia nipponica. L’immagine dei tanuki viene continuamente deformata dall’uso di molteplici tecniche: il semplice tratto super deformed, quello sontuoso dell’ukiyo-e, il manga, la grafica del videogioco d’inizio anni Novanta, il Nō e il Kabuki, l’immaginario religioso e le figure chiave della Storia giapponese, dai samurai ai kamikaze, sono il presupposto per una continua sperimentazione della forma. La carrellata su questa tradizione millenaria produce un amalgama di stili diversi che omaggiano l’immensa arte visiva del Giappone. Arte che non prescinde affatto dalla Natura. Ma la Natura, oggi, si rivela un’illusione, un dolce ricordo che vive solo nell’Immagine.
Veronica Mondelli