Dal comitato elettorale di Borovik sono arrivate varie accuse di schede truccate e di voto di scambio rivolte allo schieramento avversario, tanto che il governatore Saakashvili ha subito rivolto un appello ai suoi sostenitori, perchè scendessero nelle piazze a protestare contro la vittoria di Trukhanov. Un atteggiamento che fa tanto deja-vu. All’ex presidente georgiano infatti non deve essere parso vero poter fare un salto indietro di oltre dieci anni, e rivedersi negli abiti del rampante avvocato formatosi negli Stati Uniti, a cui George W. Bush aveva affidato l’ambizioso compito di deporre con una rivolta di piazza il presidente eletto Eduard Shevarnadze e di traghettare la Georgia sotto l’influenza di Washington. Era l’autunno 2003 quando, appena trentasettenne, Saakashvili si insediava al potere forte della sua Rivoluzione delle Rose, la prima delle sommosse di piazza made in Usa in chiave antirussa, a cui avrebbero fatto seguito in Ucraina la Rivoluzione Arancione nel 2004 (con il suo rigurgito, rigorosamente nero, di Piazza Maidan a Kiev nel 2014), e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan nel 2005.
Nelle manifestazioni organizzate ad Odessa c’è un aspetto, effettivamente, che riporta alle situazioni sopra descritte, tutte iniziate subito dopo una tornata elettorale in cui i movimenti filo-occidentali contestavano la vittoria dei partiti di governo denunciando brogli, con lo scopo di delegittimare l’avversario e insinuare nella popolazione dubbi e timori di una possibile perdita di autonomia per mano di Mosca.
Un articolo pubblicato nel 2008 dal quotidiano britannico The Independent descriveva minuziosamente l’allestimento dall’esterno delle Rivoluzioni colorate da parte di ONG legate a doppio filo al Partito Repubblicano e al Partito Democratico statunitensi. Si partiva con l’invio di esperti di comunicazione, che abilmente sceglievano un simbolo accattivante per i partiti d’opposizione e poi passavano al rafforzamento dei media a loro legati, quindi alla realizzazione di sondaggi ed exit-poll truccati per l’incipiente consultazione, che davano sempre vincente il candidato “colorato”. Dopo che nei giorni immediatamente precedenti il voto i media antigovernativi avevano evocato più volte il fantasma del voto truccato, l’operazione “Rivoluzione colorata” scattava puntualmente poche ore dopo la chiusura dei seggi, dinanzi ai primi exit-poll ufficiali e alle prime, puntuali accuse di irregolarità: i movimenti colorati, facendo sempre leva sull’esistenza di brogli elettorali, diffondevano i “loro” exit poll, che mostravano quale fosse l’esatta realtà del voto e come il governo (presunto) amico di Mosca stesse tentando di alterare la volontà popolare. A quel punto, in nome della democrazia e dell’indipendenza nazionale, si passava alla presa delle piazze con manifestazioni oceaniche che godevano della più ampia copertura mediatica, e il gioco era fatto.
Presentate al mondo come capitolo finale dello tsunami generato dal crollo del Muro, che dopo aver travolto l’Est europeo nel 1989 avrebbe dovuto infrangersi a Mosca, ma in sostanza concepite per fare terra bruciata intorno alla non più controllabile Russia post-eltsiniana, le Rivoluzioni colorate si caratterizzarono per un consenso popolare figlio soprattutto di una mirata politica di marketing politico, in grado di rendere appetibili programmi politici dal carattere essenzialmente populista e russofobo.
Ma questo che doveva essere il loro punto di forza divenne paradossalmente anche il loro tallone d’Achille, che tra il 2010 e il 2013 ne contrassegnò il tramonto: una politica priva di sostanza creata dal marketing, sommata alla mancanza di un reale impulso proveniente dal basso non poteva che portarle al fallimento.