Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, in Portogallo si sono svolte diverse manifestazioni di protesta contro la pesantissima politica economica di un governo fortemente condizionato dal programma di aiuto finanziario esterno gestito dalla troika FMI-UE-BCE. In almeno due casi (le marce del 15 settembre in tutto il Paese e la concentrazione del 29 a Lisbona) si è trattato di manifestazioni imponenti. Per intenderci: riunire due volte in quindici giorni ben più di mezzo milione di persone nella capitale di una nazione che di abitanti ne conta 10 milioni scarsi, è come far marciare quattro o cinque milioni di italiani su Roma. Eppure queste proteste si sono svolte nell’indifferenza sostanziale di buona parte dell’opinione pubblica europea, ma è ovvio che parlo soprattutto dei media italiani. Unica eccezione: l’iniziativa privata nella galassia dei blog, specchio di quell’inedita mobilità demografica inaugurata dal trattato di Schengen e dagli scambi universitari, due pilastri dell’Europa dei popoli che la crisi finanziaria rischia di abbattere.
I motivi di tale disinteresse sono almeno due. Il primo è che strategicamente la caduta di un Paese come il Portogallo importa poco, certamente molto meno della Spagna per la legge dei grandi numeri (quantità di cittadini mobilitati, ammontare del debito, peso specifico dell’economia spagnola in Europa e nel mondo...), ma anche, sul piano simbolico, un po’ meno della Grecia (culla del pensiero occidentale, della democrazia, della civiltà mediterranea ecc...).
Il secondo motivo è che finora, in Portogallo, nessuno si è rotto la testa. Proprio in quei giorni Roberto Saviano ricordava le verità che non fanno notizia e un articolo di Eugenio Montale sui mass media cassa di risonanza dei terroristi. L’autunno tiepido portoghese è l’esempio di un popolo in rivolta che manca l’appuntamento con i notiziari internazionali. Perché, se si esclude qualche tensione a latere delle grandi manifestazoni (routine per qualsiasi celerino nostrano di servizio la domenica in uno stadio), questa enorme massa di cittadini indignati si è mossa pacificamente, sbandierando slogan in molti casi arguti e intonando, assieme ai più tradizionali canti di lotta, note appartenenti alla tradizione musicale colta del sec. XX portoghese, come quella sorta di colonna sonora della protesta che è diventato Acordai (“svegliatevi”), musica di Fernando Lopes Graça su poesia di José Gomes Ferreira (sempre per intenderci e senza andare troppo per il sottile: un po’ come se da noi, dopo Bandiera rossa, si cantasse un pezzo di Berio su testo di Calvino). L’immagine più emblematica di quei giorni l’ha scattata un reporter della Reuters. Mostra una ragazza che abbraccia un poliziotto in assetto antisommossa mentre la marcia del 15/09 sfila sotto la sede del FMI a Lisbona. Con l’ormai consueto rimpallo fra media e reti sociali, i portoghesi si sono rivisti in quella foto e l’hanno usata come chiave di lettura – autoanalisi forse non profondissima ma funzionale – di un popolo che nel 1974 rovesciò una dittatura con i garofani nei fucili. Hanno deciso che quella foto li raccontava.
Pasolini scriveva all’indomani degli scontri di Valle Giulia, gli osservatori attuali si sperticano in elogi preventivi che somigliano tanto a quello che gli inglesi chiamano wishful thinking e fanno il paio con il Nobel della Pace all’UE proprio quando la sua pace sociale non era mai stata così traballante. Abituati alle manifestazioni come rituali ciclici delle democrazie mature (e anzianotte), molti giornalisti hanno abbordato il tema come chi, nell’intervallo fra il 1º e il 2º tempo di una partita, rivede gol e falli alla moviola e ammette che la squadra perdente sta giocando meglio. Chi sa di calcio dovrebbe anche sapere che, con lo svantaggio e qualche errore arbitrale, il gioco nel secondo tempo si fa fatalmente più nervoso. Neanche la Rivoluzione dei garofani, a pensarci bene, fu tutta rose e fiori.
P.S.: Ringrazio Luca Onesti per le foto. Altre ne trovate qui.
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