L’antica città di Poseidonia fu
una delle più fiorenti colonie della Magna Grecia. L’area che ne ospita i resti
rappresenta oggi uno dei maggiori tesori archeologico-architettonici
dell’Antichità e uno dei vanti del patrimonio archeologico e artistico
dell’Italia meridionale.
La città antica, fondata
presumibilmente tra la metà e l’inizio del VII secolo a. C. da coloni greci
(secondo le fonti Achei e Dori) provenienti da Sibari (città sulla costa ionica
calabrese, nel golfo di Taranto), occupa un’ampia area della piana alluvionale
del fiume Sele, nel territorio dell’odierno comune di Capaccio (Salerno).
I resti monumentali, rimasti
quasi ignoti per secoli a causa dell’isolamento della zona, divenuta malarica in
seguito all’impaludamento della foce del fiume, furono “riscoperti” alla metà
del Settecento, epoca a cui risalgono i primi disegni e stampe dei templi; i
primi interventi di scavo sistematico del sito risalgono, invece, ai primi anni
del Novecento; tali campagne di scavo riportarono alla luce i resti del settore
pubblico della città e alcuni quartieri residenziali (per lo più di epoca
romana), togliendo in tal modo i templi dal loro secolare isolamento nella
campagna e reinserendoli opportunamente nel contesto della città di cui
facevano parte.
La cerchia delle mura greche,
molto ben conservata (databile dal IV al I sec. a. C. con alcuni tratti più
antichi del VI-V), circonda ancora oggi come un anello l’area della città
antica per quasi 5
chilometri, rendendoci un’idea della sua estensione
(circa 120 ettari,
di cui solo 25 scavati).
Mura, porta Sirena
Mura, presso porta Sirena
Poseidonia era collegata al mare per mezzo di una
laguna, oggi scomparsa, e dotata di un trafficato porto che consentiva i
collegamenti e i commerci marittimi lungo la costa tirrenica.
L’area della città ha restituito
tracce preistoriche della presenza umana, che vanno dal Paleolitico all’età del
bronzo, con resti molto interessanti di alcuni villaggi di capanne di età
neolitica.
La città fondata dai Sibariti
prese il nome di Poseidonia, e vide nei secoli VI e V a. C. la sua fase di
massimo splendore, con la costruzione dei grandiosi monumenti che ancora oggi
testimoniano la ricchezza e la prosperità della sua vita commerciale e
culturale. La fase di massima crescita e sviluppo segue l’episodio della
distruzione della città madre Sibari, avvenuto nel corso della guerra contro
Crotone nel 510 a.
C..
Verso la fine del V sec. a. C.
Poseidonia venne conquistata dalla popolazione indigena dei Lucani, conquista
che non fu violenta e che portò ad un passaggio senza traumi di rilievo: si
ritiene, infatti, che più che di una conquista militare si sia trattato di una
graduale affermazione politica della popolazione lucana a scapito dell’elemento
greco. La città mantenne integra la propria funzionalità e il proprio assetto
urbanistico, senza distruzioni o stravolgimenti. Ai Lucani si deve
probabilmente il cambio di nome, che fu mutato in Paistom. Le necropoli di
questa fase (fine V-IV sec. a. C.) sono particolarmente rilevanti perché hanno
restituito un alto numero di tombe con decorazioni pittoriche di grande rilievo
e corredi funerari preziosissimi, oggi esposti nel Museo Archeologico Nazionale
di Paestum, nei pressi dell’area archeologica.
Dopo la brevissima parentesi del 331 a. C., quando Paistom fu conquistata
dall’esercito del re dell’Epiro Alessandro il Molosso, che aveva sconfitto i
Lucani, si giunge alla importante data del 273 a. C. quando, dopo la
guerra contro Pirro, la città fu definitivamente occupata dai Romani, che
cambiarono il nome lucano in quello di Paestum, con il quale è conosciuta ancora
oggi. La romanizzazione di Paestum fu molto profonda; Roma vi dedusse una
colonia di diritto latino e riorganizzò l’abitato secondo lo schema delle città
romane, con la costruzione di nuove infrastrutture e edifici monumentali (come,
ad esempio, il foro e l’anfiteatro).
I principali monumenti greci, tuttavia, tra cui i grandiosi templi, sopravvissero indenni senza modifiche di sorta.
La
prosperità di Paestum continuò anche sotto il dominio romano e la sua potenza
navale fu di grandissimo aiuto a Roma nel corso della prima e seconda guerra
punica.
Il declino della città iniziò in
seguito al graduale impaludamento della piana circostante e all’insabbiamento
del porto, fattori che causarono la perdita dell’importanza commerciale, un
impoverimento inarrestabile con il conseguente peggioramento delle condizioni
di vita e un lento spopolamento della città, i cui pochi abitanti rimasti si
ritireranno, nei secoli dell’alto medioevo, nei centri abitati in quota sulle
montagne circostanti.
Alcuni dati archeologici hanno
dimostrato che, nelle ultime fasi di vita di Paestum, la scarsa popolazione
residua si era ritirata nell’unico punto leggermente sopraelevato della città,
l’area più a nord intorno al tempio di Atena (noto tradizionalmente come tempio
“di Cerere”) e che quest’ultimo, con opportuni adattamenti, era stato
convertito in chiesa cristiana.
Tra i numerosi edifici superstiti
della città greca si è scelto di presentarne uno tra i meglio conservati: il
così detto tempio di Nettuno, edificio ammirevole per le sue qualità
architettoniche e per il suo eccezionale stato di conservazione, che ne fa uno
tra i monumenti più rappresentativi della Magna Grecia.
L’intitolazione tradizionale a
Poseidone / Nettuno è di fantasia, e le fu conferita in riferimento al nome
della città, di cui costituiva certamente l’edificio di maggior rilievo. Alcune
fonti e dati archeologici fanno ipotizzare una dedica ad Apollo o a Zeus.
L’edificio, di ordine dorico, databile con buona approssimazione intorno alla
metà del V secolo a. C., è un grande tempio periptero esastilo, cioè con la
cella circondata da un giro di colonne e con un numero di sei colonne sulle
fronti principali. Misura circa metri 25x60 e sorge su un alto crepidoma
costituito da tre gradoni, che lo innalza sul piano di campagna e ne aumenta
l’imponenza. Il colonnato, come già visto, presenta 6 colonne sui lati brevi e
14 su quelli lunghi;
la cella (naos) del tempio è costituita da un vano diviso
in tre navate da due file di 7 colonne su due ordini (ampio lo spazio centrale,
più angusti quelli laterali); due scale collocate ai lati dell’ingresso, di cui
rimangono poche tracce, consentivano l’accesso alle parti alte del tempio,
probabilmente in funzione delle operazioni di manutenzione.
L’ingresso del naos
è preceduto da un pronao in antis
(costituito cioè dal prolungamento dei muri laterali della cella e da due
colonne interposte, che racchiudono uno spazio che funge da vestibolo alla
cella stessa); una struttura analoga (opistodomo) è collocata, simmetricamente,
sul lato opposto del naos (ovest), accessibile solo dall’ambulacro interno al
colonnato.
I muri perimetrali della cella sono andati quasi del tutto perduti,
mentre sussistono in buone condizioni i colonnati interni.
Eccezionalmente integra è,
invece, la peristasi esterna del tempio; le 36 colonne doriche, alte circa 9 metri, presentano un
fusto molto massiccio e una rastremazione (assottigliamento del diametro del
fusto dal basso verso l’alto) molto accentuata: le colonne hanno infatti un
diametro di circa 2 metri
alla base e un metro e mezzo in alto. L’entasis (rigonfiamento del fusto a circa
un terzo dell’altezza) è meno accentuata rispetto ad altri edifici dorici del
periodo.
L’elevato numero delle scanalature che caratterizza i fusti (in numero
maggiore rispetto ad altri templi) è un espediente che conferisce maggiore
slancio ascensionale alle colonne e attenua, parzialmente, la sensazione di
pesantezza che ci si aspetterebbe da strutture di queste dimensioni.
Sulle colonne, concluse in alto
dai canonici echino (elemento rigonfio a “cuscinetto”) e abaco (elemento
parallelepipedo a base quadrata), che caratterizzano l’ordine dorico, poggia
un’alta trabeazione, formata da un architrave liscio e dal fregio con triglifi
(formelle in pietra con scanalature decorative verticali) e metope (elementi quadrangolari in pietra,
lisci o scolpiti, che si alternano ai triglifi) non scolpite; un cornicione di
coronamento fortemente aggettante e i due timpani triangolari sui lati brevi
concludono l’edificio.
Restano poche tracce degli elementi di copertura e della
policromia originaria dell’edificio, che doveva presentarsi ai contemporanei
interamente rivestito da uno strato pittorico a colori vivaci.
Una fitta serie di ulteriori
accorgimenti ottici ed elaborati calcoli matematici per le proporzioni fanno di
questo tempio pestano un capolavoro dell’architettura e una delle massime
espressioni della cultura e della civiltà greche.
Davanti alla facciata principale
(est) sorgono i resti di due grandi altari per i sacrifici, uno coevo al
tempio, l’altro databile a età tardo-repubblicana (I sec. a. C.).
Nicola S.