Io non auspico una caduta del governo ADESSO. Ma voglio che TUTTI, incluso Letta, sappiano che i giochini di palazzo - una volta rimosso l'alibi "legge elettorale" - sono soggetti ad andare in discarica.
Oggi, nel suo editoriale, Massimo Giannini si chiede se ha senso continuare ad essere alleati con un corruttore e frodatore, in nome del mantra della governabilità. Ce lo chiediamo anche noi. Governare insieme ad un signore che rappresenta ceti sociali diversi dai nostri, e tentando dalla mattina alla sera di mischiare gli interessi - spesso non commendevoli - degli industrialotti brianzoli, e delle "partite IVA", coi suoi personali sogni (o incubi) da pregiudicato e da imputato, non rientra fra gli interessi prioritari di 46.999.999 elettori. Tafanus
Un corruttore come alleato (di Massimo Giannini)
Ma
significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri
inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a
giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta
Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono
schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un
soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza.
Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa.
Nel
luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore
De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato
da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore,
Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni
di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul
conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà».
La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni
passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a
individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare
l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara
agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una
strategia di sabotaggio...». La missione è: «Procurarsi voti in
Parlamento». Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che
per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai
stato un problema.
De Gregorio tenta prima con un senatore suo
amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi
al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni»,
risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al
gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma
l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove
generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato
per appena tre voti. «L’evento finale» si produce il 24 gennaio 2008,
dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una
richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di
Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va
sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono
Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e
misteriosamente scomparso il giorno del voto. Sono prove, queste? O solo
calunnie? Sono prove, nient’altro che prove.
Questo è dunque lo
scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il
«golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo
Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz
episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema
corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il
Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto
(grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha
funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e
per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito
pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due
senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna
acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.
Il
processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso
che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna
definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai
pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto
dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby
per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni
della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà
novembre).
Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex
premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di
«pacificazione», le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le
pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello
Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam
del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di
questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né
di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più
semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di
diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente
«condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e
soprattutto future.
Il Pdl è squassato da una strana lotta
intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de
cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle
pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima»
celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo»,
«attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di
senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il
governo Letta. Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a
questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi,
dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile
prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San
Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un
possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico.
Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».
Massimo Giannini