Post-Fakes From Another Place, di Gianni Sapia

Creato il 09 giugno 2013 da Athos Enrile @AthosEnrile1
Gianni Sapia racconta Fakes From Another Place, dei Post.
Guidare di notte, da soli, con le luci di strade e città che sembrano scivolarti addosso, a volte può diventare un’esperienza mistica. La malinconia diventa l’ingrediente principale del polpettone che le tue sensazioni si accingono ad impastare e ti sembra di vivere dentro un film dalle atmosfere dark, gotiche, qualcosa tipo Blade Runner o Sin City. Il tappeto di asfalto nero scorre sotto di te e nel contempo ti dà sensazioni di passato e futuro, di vita vissuta e di vita da vivere. L’autoradio sputava fuori uno stupido gracchiare che non riusciva comunque ad alterare il mio stato allucinato e le poche stazioni radio che riuscivo a sintonizzare, trasmettevano cose inascoltabili. Naturalmente Radio Maria si prendeva. “La musica è importante in questi momenti” e articolando quest’unico pensiero l’occhio mi cadde sulla copertina bianca di un CD che mi aveva prestato il mio spacciatore di dischi nuovi. “Fanno un bel Rock!” mi aveva detto mentre me lo passava. Sopra c’era disegnata una specie di palla ferrata stilizzata. Il corpo della palla era bianco come lo sfondo. L’idea della figura era data dagli spunzoni neri che partivano dalla sfera. Guardando bene poteva anche essere un sole stilizzato. Sotto, il nome del gruppo e il titolo dell’album: Post, Fakes From Another Place. Va bene, lo infilo nell’autoradio. Absent Life è il primo pezzo, che inizia con un riff chitarristico e una batteria che riporta alla mente gli U2 di Boy e di War, con un po’ di elettronica in più, che dà un tocco di new wave. L’inizio è promettente, penso. L’incipit di Release The Catch è affidato quasi completamente all’elettronica, con un pestare di batteria quasi punk e l’armonia in cui sfocia nella parte centrale è intramezzata da allucinazioni di effetti sintetici, che poi riprendono il sopravvento nella parte finale. Memorie di Sugarcubes in Lifes Too Good. Si torna ad un gusto più squisitamente rockettaro con Wait. Bel pezzo! La batteria “pesta” come piace a me, coinvolgendo tutte le parti. Charleston, rullante, grancassa tom, piatti, tutti sono chiamati in causa. Il bravo batterista è ben coadiuvato dal resto della band che confeziona proprio un bella canzone. Intanto l’atmosfera che mi circonda cambia. La malinconia si dipana e lascia spazio ad una sensazione di audacia. Potenza della musica! L’ipnosi del riff di Closer To An End mi rapisce repentinamente e imbavaglia i miei pensieri, coinvolgendomi pienamente in un brano dalla struttura curata che porta ad un inaspettato ed ossessionante finale, che lascia spazio alla sferzata chitarristica iniziale del brano successivo, Overlooking. Un pezzo tirato. Una discesa tra le rapide della musica. Grinta vera sottolineata dal roboante pompare del basso. Una corsa che ti lascia senza fiato, fino al repentino stop finale. La musica ha la meglio sulla parte probabile della mia mente e l’improbabilità ha di nuovo la meglio. Potenza della musica! Little Waves è una sosta appagante. Il galoppo si interrompe e uomini e cavalli si dissetano e si rinfrancano all’ombra del romanticismo di voce e piano. Ma non c’è tempo, bisogna rimontare in sella e continuare la cavalcata. Cosa che avviene puntualmente con You Beggar. Riprende la corsa con una sezione ritmica sempre più convincente, riff di chitarra che alternano unghiate taglienti ad arpeggi graffiati e voce metallica ben cucita tra le parti. Lo schema si ripete in Who The Hell, dove l’amalgama strumentale è forse ancora più evidente e la chitarra esprime maggiormente la sua potenza, con una batteria sempre in evidenza, costante questa di tutto l’album. E siamo alla divagazione, alla sperimentazione, all’inascoltabile, Unheard appunto. Rumori messi in musica come base di un cantato lacerato, mi viene da definirla così. La musica è anche gioco, scherzo. La musica è seria e ridicola e ti dà il senso dell’ironia con cui andrebbe presa la vita. Potenza della musica! Con la tempesta di sabbia di The Say si ritorna sui consoni binari di rock ed elettronica in cui ormai i Post mi hanno coinvolto. Il pezzo di congedo, Non Mi Confondere, unico brano in italiano, sembra fatto apposta per far scorrere i titoli di coda. Epico, onirico, ossessivo, da colonna sonora di film dove l’eroe, alla fine, ce la fa. E scorrono i titoli di coda. Starring: Gio Franco (Vocals, Bass, Piano), Davide Novallet (Guitars, Vocals), Gigi Laurino (Bass, Effects), Antonio Monaco (Drums, Vocals) e loro sono i Post. Il silenzio che prima amplificava la malinconia ora ha un sapore diverso. Non si può definire quello che lascia, che cambia, quello che trasforma e ricostruisce. Continuo a guidare inebriato dai suoni che mi sono appena passati nella mente. E mi sento bene, irresponsabilmente felice. Potenza della musica!



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