Post office: charles bukowski e il romanzo sul postino henry chinasky

Creato il 07 dicembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Francesco Gori

Charles Bukowski era uomo e scrittore senza mezze misure. Chi lo legge non ha scelta: o lo ama alla follia, o lo disprezza senza dibattito. Post Office (1971), tra i libri del writer americano, è il romanzo che più di altri è rimasto impresso in chi scrive.

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Henry Chinasky, l’epico alter ego bukowskiano, è il prototipo dello scansafatiche e sogna un lavoro in cui non si lavora. Viene assunto alle poste di Los Angeles, ma quello che pensava un incarico leggero si rivela per la sua psicologia un impegno gravoso: la routine quotidiana e le regole burocratiche, le stesse della vita “incasellata” alla quale si ribella, non sono nelle corde di Hank, uomo dedito a donne, alcol e cavalli. Questa è la sua indole, questa è la sua scelta di vita.

Le regole delle Poste degli Stati Uniti aprono il romanzo, quasi a voler sottolineare l’insofferenza del protagonista alle imposizioni, del resto questo è il Chinasky-pensiero: “mancava la suspence… quando non sapevo cosa cazzo sarebbe successo un minuto dopo…”; “Qualunque stronzo è capace di trovarsi uno straccio di lavoro; invece ci vuole cervello per cavarsela senza lavorare. Qui la chiamiamo l’arte di arrangiarsi. E io voglio diventare maestro in quest’arte”; “Comportatevi bene e avrete un lavoro sicuro per il resto della vita. Sicuro? La sicurezza si poteva averla anche in galera. Tre metri quadrati tutti per voi senza affitto da pagare, senza conti della luce e del telefono, senza tasse, senza alimenti. Senza tassa di circolazione. Senza multe. Senza fermi per guida in stato di ubriachezza. Cure mediche gratuite. La compagnia di persone con gli stessi interessi. Chiesa. Inculate. Funerali gratuiti”. Giornate scandite secondo orari standard, passate ad infilare lettere nelle cassette, con brusche sveglie alle 5 del mattino dopo notti alcoliche, pronto ad ubbidire agli ordini del capo-mastino Jonstone… ma ve lo immaginate in questi panni, il buon Henry-Charles?

Sei capitoli, suddivisi in altri sottocapitoli frizzanti. A suon di sbronze, puntate all’ippodromo e scopate (per usare il gergo a lui caro) con la calda Betty dalla tragica fine, l’insaziabile Joyce (che diventa sua moglie, salvo poi divorziare) e la hippie Fay (con la quale avrà un figlio), il nostro eroe dopo tanti ammonimenti troverà pace nel solo epilogo possibile per uno come lui: il licenziamento.

Piaccia o non piaccia, Bukowski ha segnato un’epoca. Ha ispirato fior di scrittori col suo stile di vita beat, col suo linguaggio volgare quanto autentico, con il suo stile asciutto e senza fronzoli. Un talento narrativo senza ombra di dubbio, capace di attirare il lettore dentro la ragnatela nella quale Chinaski si gongola, dentro al suo mondo emarginato, zozzo e ripugnante, e al tempo stesso unico ed eccezionale. Perché non sempre la poesia è metrica, fiori di loto, farfalle e albe rasserenanti. Poesia è anche assenza di regole, il cesso di casa propria e cinque birre al pub. Charles rimane un’icona di autenticità, abile nel frantumare il perbenismo imperante, maschera che nasconde lo sporco che è in ognuno di noi.

Charles Bukowski – ilgrandebukowski.altervista.org

Per quanto di questi tempi criticabile, Post Office rimane un inno alla libertà di scegliere, vs. la macchina della società organizzata, che sceglie per noi.

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