In tempi di recessione economica e artistica, Carlo Verdone decide di non risparmiare nulla della sua personalità di attore e regista nel misurarsi con la “nuova” commedia italiana ai tempi della crisi. Posti in piedi in paradiso concentra ogni momento della commedia verdoniana: c’è il Verdone comico dei personaggi coatti, pignoli e ingenui (in questo caso condivisi con Pierfrancesco Favino e Marco Giallini); c’è il Verdone intimista dei conflitti familiari e delle nevrosi affettive; e c’è in parte anche il Verdone del racconto corale che cerca di tracciare un profilo sociale a partire da un insieme di caratteri molto diversi. Ne esce una “commedia di situazione”, ricca di personaggi e di relazioni, di microstorie e di umori, dall’impostazione quasi teatrale.
Posti in piedi in paradiso è riflessione seria en travesti, in cui le cui situazioni, per quanto divertentissime e sopra le righe, sono verosimili e tutt’altro che piacevoli. Le conclusioni a cui – dopo una girandola di strappi del destino – arriveranno gradualmente i protagonisti, abbandonando le spinte egoiche e posando finalmente lo sguardo sugli affetti veramente importanti e in particolare sui figli, sono le uniche svolte possibili per una generazione che accetta finalmente di guardare in faccia il proprio fallimento e il proprio irriducibile peterpanismo.
I tre finali (uno per personaggio) davvero spiazzanti, strappano persino la lacrima. Se è vero che il nostro cinema migliore è quello neorealista, Verdone suggerisce che la Crisi per il nostro cinema potrebbe essere un nuovo Dopoguerra. E indica una strada che mescola intelligenza e risata, ma non nasconde mai la testa sotto la sabbia.