Usciamo dall’analisi del linguaggio, ed entriamo nel merito delle relazioni interattive, entriamo, cioè, nel merito della potenza della metafora come costruttore di relazioni sociali. Siamo partiti dall’idea che la metafora sia un ponte gettato tra due immagini al fine di metterle in comunicazione. Le due immagini, come due sponde, sono “diverse” ed “opposte”. La metafora/ponte unisce dei tratti comuni alle due immagini e le mette in comunicazione o in relazione.
Chiariamo bene cosa voglio dire quando affermo che la potenza della metafora sta alla base delle relazioni umane. La metafora è costruita sulla forza del “come se”, ossia dell’analogia o della somiglianza. Da questo punto di vista, ad esempio, ho di me un’immagine, quello di un uomo che sta attraversando delle grandi difficoltà. Per dare un’idea di questa immagine la metto in relazione con un’altra immagine che abbia delle analogie o dei tratti in comune con la prima, e dico: mi sento come un naufrago (sottinteso: mi sento come se fossi un naufrago); avvicino, dunque, la prima immagine alla seconda. Questo accostamento mi è stato possibile in quanto mi sono immedesimato con la sorte del naufrago, di conseguenza in quanto ho in mente l’immagine di come può sentirsi un naufrago quando si trova abbandonato a se stesso in mezzo al mare. Quindi ho presente le condizioni in cui mi trovo a vivere e ho presente le condizioni in cui viene a trovarsi un naufrago. Gli atti o i comportamenti che compio li trovo coerenti all’immagine che ho di me.
Ora, poniamo che ci sia qualcuno che mi vede come un naufrago: anche questo qualcuno ha in mente come deve sentirsi un naufrago in mezzo al mare. Il fatto che ci sia qualcuno che mi vede come un naufrago non è affatto detto che io lo sia. Diciamo che l’immagine che io ho di me stesso sconferma l’immagine che l’altro ha di me. La mia immagine è contraria all’immagine che l’altro ha di me. Poniamo, invece, io mi riconosca nell’immagine dell’altro, di conseguenza l’immagine che l’altro ha di me viene confermata dall’immagine che ho di me stesso. In un terzo caso, posso anche ignorare del tutto l’immagine che l’altro ha di me, cioè non prenderla in considerazione neanche per un attimo. Poniamo, invece, che l’altro sia in grado di pormi nelle condizioni di vedermi come mi vede l’altro. In altri termini è come se dicessi: l’altro ha il potere di pormi nelle condizioni descritte dalla sua immagine. Finché la mia immagine conferma quella dell’altro, l’altro non ha bisogno di pormi in quelle condizioni, vuol dire che già mi ritrovo in esse. Nel caso in cui l’immagine di me sconferma o nega quella dell’altro, l’altro per vedersi confermata l’immagine che ha di me si vede indotto a esercitare quel potere al fine di porre le condizioni descritte dalla sua immagine. A questo punto ci si potrebbe domandare: ma per quale ragione l’altro dovrebbe vedere confermata l’immagine che ha di me? Diciamo che lo fa in ragione del fatto di “credere” che quella sia l’immagine corrispondente al vero, anche se io non ne sono né convinto né persuaso.
Una mamma dice della propria figlia: “E’ una ragazza fragile”. Si comprenderà che l’immagine non è relativa a un aspetto fisico, ma riguarda la sfera dell’agire. Se questa è l’immagine che la mamma ha della figlia, di conseguenza, ogni volta che si parla o si fa riferimento alla figlia, si comporterà con tutti coloro con i quali entra in contatto in coerenza con questa immagine. In altri termini, quando al centro della mediazione tra sé e gli altri c’è la figlia, la metafora veicolata è quella del “corpo fragile”. Quindi, la mamma comunica agli altri l’immagine della figlia attraverso questa metafora. “Il soggetto fragile” è la metafora che la mamma scambia con gli altri quando si trova a parlare o a trattare con la figlia: gli altri sostituiscono l’immagine che avevano della figlia con quella della madre. In seguito, analizzeremo in forza di cosa gli altri sono indotti ad effettuare questa scambio. In sostanza, l’immagine della madre è il ponte che mette in comunicazione “la figlia” con gli altri.
Da parte sua, la figlia può riconoscersi in questa immagine; può rifiutarla; oppure può ignorarla. Prendiamo in considerazione la seconda o la terza opzione: la figlia non si vede affatto fragile. Nonostante che la figlia sconfermi o ignori l’immagine che la mamma ha di lei, la mamma seguita a comportarsi con gli altri in coerenza con questa immagine. A questo punto supponiamo che la mamma abbia il potere di condizionare tutti coloro che hanno contatti con la figlia nel modo descritto dalla sua immagine. Ha poco importanza se mette in atto questo potere in modo intenzionale o meno. Voglio dire mettiamo da parte le ragioni che la spingono in tal senso, e accontentiamoci della spiegazione: lo fa perché ci crede. Quindi, la mamma induce gli altri a comportarsi con la figlia come se fosse un soggetto fragile. Ora, la mamma sa come bisogna trattare un corpo fragile: un oggetto fragile è un corpo delicato, che può rompersi o frantumarsi facilmente; un oggetto siffatto deve essere trattato con cura, ha bisogno di attenzioni particolari quando lo si maneggia, non deve subire colpi bruschi, deve essere trattato con delicatezza, non deve essere esposto a cambiamenti repentini; è un oggetto che non deve ricevere traumi. Coloro ch’entrano in relazione con la figlia cominciano a far proprie le metafore materne su come bisogna trattare il “corpo fragile” della figlia. A questo punto, più la figlia viene trattata come un corpo fragile dagli altri più sarà portata a vedersi come un corpo fragile. Quindi, la mamma può indurre la figlia ad identificarsi con il suo punto di vista nel momento in cui riesce a attivare intorno a lei un ambiente conforme all'immagine che ha della figlia.
Mi si obietterà: possibile mai che una donna abbia tutto questo potere al punto di indurre gli altri a vederla nel modo in cui la vede lei? Perché mai gli altri dovrebbero identificarsi con il punto di vista della mamma e non con quello della figlia? Il problema sta proprio qui: come fa qualcuno a portare gli altri ad “identificarsi” con il proprio punto di vista.