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Creato il 21 giugno 2010 da Andreapomella

Alle undici di sera, sotto la doccia, dallo spiraglio della finestra del bagno che dà sul cortile interno si sente il suono di un telefono. Dev’essere l’appartamento del quarto piano, o il secondo, non so. È uno squillo prolungato, un suono sterile, desertico, a cui nessuno presta attenzione. Da giovane non mi sarei mai fermato a riflettere sull’infertilità di un telefono che squilla a vuoto alle undici di sera, avrei chiuso gli occhi sotto lo scroscio d’acqua tiepida e avrei cancellato intorno a me l’intero universo. Oggi invece penso che pochi gesti al mondo sono infelici come questa telefonata. Chi cerca chi? C’è un cosmo di luoghi e di persone che di continuo generano questi rituali, un uomo seduto al tavolo di un bar con una maschera sul volto che forse pensa alla donna con cui ha una relazione clandestina. Ma il clandestino in questa storia è solo lui; la donna, dal canto suo, è al quarto piano che stira in silenzio le camicie di suo marito nella calma brumosa di una domenica sera di pioggia. E chissà perché ha forse intuito che lui sta dando una sterzata alla loro storia, che ha preso coraggio, il coraggio di una simulazione assoluta, chiamarla a casa alle undici di sera spacciandosi per chissà cosa, assumersi il rischio che venga a rispondergli questo marito di cui conosce a malapena il nome e le qualità scadenti nell’arte della seduzione. I due hanno un numero di cellulare in comune, un recapito segreto a cui indirizzano tutte le loro comunicazioni, ma l’uomo seduto al tavolo del bar stanotte ha scelto deliberatamente di venire allo scoperto, e lei, che ascolta in silenzio il ticchettio della pioggia sui vetri delle finestre, non sa, o forse in qualche modo sente, che dietro quello squillo di notte c’è l’abisso. Così continua a rifinire quel colletto con la punta del ferro da stiro, sperando che suo marito, che è di là a sonnecchiare sul divano davanti alla Tv, non abbia l’ultimo soprassalto di giornata a si affanni a rispondere al telefono. Ma in questo appartamento senza amore nessuno sembra animato dalla volontà di affacciarsi sull’abisso, né lei che finge di non sentire il telefono, né il marito che apre appena un occhio e si limita a immaginare che a quest’ora non può essere altri che un uomo distratto, uno sconosciuto che deve aver composto sulla tastiera il numero sbagliato. Allora il telefono smette di squillare a vuoto, la donna tira un sospiro di sollievo, posa il ferro da stiro e corre in bagno a sciacquarsi il viso, suo marito richiude gli occhi e torna a sognare, l’uomo seduto al tavolo del bar mette giù il telefono e ordina un gin tonic, nel cortile interno cade il silenzio, è un silenzio brutale, che contiene in sé una possibilità in meno nella casistica degli eventi, come lo scroscio di piume di un uccello con un’ala amputata che si leva faticosamente in volo.

Jorge Enrique Adoum, POTREBBE ESSERE ANCHE

Un bar. Di notte, è evidente.
Potrebbe essere anche un cabaret, o un teatro.
Musica di pianoforte. O un bandoneón. Chissà una chitarra.
Forse, pure, una canzone. Dipende:
un tango, un bolero, una nostalgia greca,
qualcosa di impalpabile, come un blues, irraggiungibile
come le cosce di questa ragazza di Venezia
che ti guarda dal fondo del tuo bicchiere.
Ricordare, quando uno è o sta solo, fa più male
che immaginare: questo è quello che vogliamo dimostrare.
Il microfono amplifica la vera voce, l’assenza:
si tratta del viaggio a una donna come a una città
alla quale non si giunge da invisibile, da lontano.
E se uno giungesse e stesse lì, in lei,
si tratterebbe, con questa musica, di una separazione
che sarà per sempre, come sempre.
A chi dare la colpa? Sono destino il paese
che non avesti, la donna in cui non entrasti?
Una compagnia – qualsiasi –, più o meno coniugale,
o da poco incontrata, dico più o meno duratura,
mai l’amata non cercata, mai la presentita,
distruggerebbe questa sensazione agrodolce o dolceamara
di ciò che non è, ciò che non fu, senza che importi
la voce o il volto che le appartengono,
né l’età che le sue gambe sostengono:
ciò che non può essere perché se fosse non sarebbe.
E in fondo, farebbe male che non facesse male.
Persino che non facesse male più di quanto fa male.


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