Tempo. Tempo che non aspetta, che scivola via o che non passa mai. Il tempo, per il ciclismo, è un po’ come il Destino o la fortuna, fatto di secondi pesanti o leggeri, infiniti come oceani o intimi come un abbraccio.
Sul Pouy de Dome, silenzioso e ostile vulcano addormentato, quel giorno di luglio del 1964, Raymond Poulidor cercò di mettere le redini al tempo tiranno. La maglia gialla di leader del Tour de France era sulle spalle orgogliose di Jacques Anquetil che aveva cinquantasette secondi di vantaggio sul suo avversario. Raymond sapeva che la montagna gli era amica; gli scalatori godono delle asperità, sanno che su quel terreno potranno essere forti, mettere le ali dove, agli altri, si inchiodano le gambe.
Ma sapeva anche che Anquetil non avrebbe ceduto facilmente la gialla, che bisognava tenerlo d’occhio, controllarlo e sfiancarlo allo stesso tempo. La tremenda strada che avvolge il vulcano la affrontano insieme, con le due ruote anteriori quasi sulla stessa, immaginaria, linea. Poulidor sceglie di stare sul lato esterno, quello più vicino al precipizio. Sì, salire sul Pouy de Dome è faticoso quanto risalire un precipizio buio e ripido, senza alcun appiglio se non un cavallino di ferro a pedali. Il tempo, lì, tra il niente e le pareti rocciose, non esiste più: c’è la montagna e ci sono i due rivali di sempre, paradossalmente attaccati l’uno all’altro come due compagni di viaggio che vogliono rendere meno faticosa l’ascesa.
Non è così. Raymond tenta di imporre il suo passo, vuole mettere l’avversario k.o. ma i round sono lunghi e massacranti anche per lui. I metri sono interminabili, Josè Jimenez che è scattato prima di loro ormai è lontano ma loro due sono lì e Raymond sa che quella scalata potrà regalargli la maglia solo in cambio del suo sudore e della sua tenacia. E a ogni pedalata, dietro ogni curva, gli sembra di vedere sé stesso in giallo, esultante.
Tempo. Tempo infinito su quel vulcano che non conosce più orgasmi se non quello degli uomini che si arrampicano su di lui in bicicletta, che veglia silenzioso sulle loro fatiche. Tempo che scorre sempre eppure sembra essersi fermato.
Quando manca un chilometro al traguardo, i due avversari sono ancora uno a fianco dell’altro. Che ne sarà di loro? Delle loro anime intrise di sudore e dei loro corpi prostrati dall’asfalto? A centocinquanta metri Poulidor si accorge che Anquetil è pallido e sembra non aver più fiato in corpo: cede. Jacques Anquetil, biondissimo campione normanno, alza, stremato, bandiera bianca. E Raymond scatta verso il traguardo con quello che gli resta di sé stesso. Quanti secondi ci sono in centocinquanta metri non lo sa. Non sa se saranno tanti o pochi, preziosi o inutili. Ma quando passa la linea bianca pensa follemente alla maglia, al profumo inconfondibile che ha quella stoffa per certi campioni che amano profondamente il Tour. Svanisce presto, quel profumo, se lo porta via l’arrivo di Anquetil che, stremato, con la faccia cadaverica, dove la fatica sembra avergli inciso rughe incredibilmente profonde, chiede se la gialla è ancora sua. Sì, gli rispondono. E’ ancora sulle sue spalle, per poco: quattordici miseri secondi.
Tempo. Tempo inesorabile che non guarda in faccia a nessuno. Tempo che forse peserà per sempre su Raymond Poulidor che, in quel Tour, fu costretto al secondo gradino del podio, staccato dal rivale per soli cinquantacinque secondi. Scorrono veloci, cinquantacinque secondi, nella vita. Ma in corsa sono un abisso che non si può colmare: duri, impietosi, incisi nella pietra di un tempo che scivola via a braccetto dell’umanità.