Ho sei mesi di prova. Meno una settimana, quella appena trascorsa.
Da domani al 31 dicembre potrei essere lasciata a casa da un giorno all’altro. O potrei decidere di andarmene io. Sei mesi sono molti: le volte precedenti sono stati due, tre al massimo. Sei mesi garantiscono fuoco sotto il culo, prove e riprove, massima attenzione, un esame lunghissimo. La posta in gioco, per me, questa volta è alta.
Il primo e il secondo giorno ho pensato di aver fatto un errore colossale, dopo aver misurato a larghe spanne il tasso di casino con cui avrò a che fare. Il terzo e il quarto ho ammesso con me stessa che era proprio del casino che stavo andando in cerca, quando ho deciso di cambiare lavoro … e allora perché non accettarlo e trasformarlo in opportunità, come dicono i guru americani? Il quinto giorno non c’è stato perché era settimana corta.
Intanto, una volta ancora, mi ritrovo in un posto senza aria condizionata e con il caldo scoppiato a bomba sulla Lombardia. Dieci giorni fa, nei mie ultimi giorni al vecchio incarico, hanno finalmente attivato un condizionatore: lo stavo chiedendo da cinque anni. Mi sono quasi commossa. Adesso devo di nuovo riarmarmi di pazienza e bottiglie d’acqua.
Il mio giugno prosegue su montagne russe di impegni, lavatrici e panni stesi al sole per togliere l’odore di corpo umido che caratterizza l’estate in città, coppette al pistacchio e cioccolato fondente, oleandri in fiore e profumo improvviso di gelsomino e tigli. E qualche escursione nel paese dei libri, questa volta per rileggere l’adorabile Ballet Shoes di Noel Streatfeild, prima di accantonarlo tra il centinaio di romanzi in inglese che, prima o poi, ce la farò a vendere in blocco.