Povera scuola, non prendiamola troppo in giro

Creato il 20 marzo 2013 da Pedagogika2

Nelle librerie si moltiplicano romanzi e saggi crudelmente ironici o catastrofisti. Più che altro una moda. Da bocciare

  Fabrizio Ottaviani - Mer, 20/03/2013

Estate del 2009, esami di maturità. Il commissario di geografia astronomica prega il candidato di spiegare le fasi lunari. Il ragazzo sorride impercettibilmente. Sa la risposta, ma per essere sicuro di non sbagliare ha bisogno di una piccola precisazione. 

«Professore, le fasi lunari prima del big bang, o dopo il big bang?».
Di storielle come questa (raccolta dal sottoscritto) ogni insegnante potrebbe raccontarne a decine: nel mondo della scuola fiorisce una rigogliosa aneddotica comica ed era inevitabile che prima o poi qualcuno ne approfittasse. In Italia, in particolare, alcuni dei «casi» editoriali degli ultimi anni, da Ex cathedra di Starnone a Io speriamo che me la cavo di Marcello D'Orta, hanno estratto il potenziale di commedia disponibile fra le lavagne e i banchi. Hanno fatto bene, gli scrittori, a non avere pietà delle aule, che già per Parini erano «queruli ricinti ove l'arti migliori e le scienze sono cangiate in mostri e in vane, orride larve»? Secondo Roberto Sandrucci, insegnante e studioso di pedagogia, hanno fatto malissimo: «Questa piccola recita conviviale non è del tutto innocente, né innocua» si legge ne La scuola sotto il genere della commedia (edizioni ETS, pagg. 158, 12 euro), un saggio spesso convincente che con qualche cipiglio ripercorre la storia recente di quello che ormai è quasi un genere, il diario scolastico (anche cinematografico o televisivo), o la meditazione sull'educazione nazionale. L'obiettivo dell'autore? Stabilire in termini di infelicità quanto ci costa, nel medio e lungo periodo, ridere della scuola.
Le opere passate al setaccio sono poche, ma significative: si parte da Io speriamo che me la cavo di D'Orta, da anni firma del Giornale, e si finisce con 5 in condotta di Mario Giordano, che del Giornale è stato direttore. In mezzo, sono presi di mira autori che di certo non dispiacciono alla sinistra: come Paola Mastrocola (La scuola raccontata al mio cane) o Chiara Valerio (Nessuna scuola mi consola).
Sandrucci è un moralista classico, e un po' bara. L'orecchio nel quale dovrebbero penetrare le argomentazioni dei suoi avversari è stato prudentemente riempito di cera. Poco male, si dirà, è un tributo da pagare al genere: si regolava così anche Montaigne, oppure Swift. In compenso, La scuola sotto il genere della commedia induce il lettore in tentazione, perché antologizza le scene più esilaranti dei «commedianti» che si vogliono infilzare. Le frasi rubate al Moccia sceneggiatore, per esempio, strapperebbero il sorriso al più ingessato dei presidi: «Sei sempre convinta di lasciarmi?». «Non convinta: ti ho già lasciato». «Ma guarda che io rispetto agli altri ho una marcia in più». «Sì, la retromarcia!». Ma Sandrucci sa anche essere profondo: a D'Orta ricorda che «Il bambino non vuole far ridere; e il bambino che scopre di essere divertente diventa subito innaturale». Della Mastrocola deplora lo sfascismo qualunquista e finto-naïf, rintracciabile in passi come questo: «Nessuno capisce più niente di quel che leggo e spiego. Semplicemente, il mio mestiere non c'era più. Qualcuno me l'aveva preso, lo aveva nascosto o addirittura ucciso». Che bel piagnisteo, vero? Parole simili a quelle, altrettanto catastrofiste, dalla Valerio: «Alla cattedra ci sta uno che non ha niente di disciplinarmente significativo da dire e continua a dirlo in faccia a un gruppo di persone completamente disinteressato ad ascoltare. E questa è la migliore rappresentazione della scuola di oggi che mi viene in mente». Secondo Sandrucci, evocare disastri su disastri (a questo atteggiamento non sfuggirebbe neanche il Mario Giordano di 5 in condotta) equivale ad «abbagliare», e dunque a rendere invisibili gli insegnanti che nella penombra, e senza fare tante smorfie, continuano ad educare.
A questo punto non osiamo immaginare cosa direbbe di due volumi usciti negli ultimi giorni: Pronti a tutte le partenze (Sellerio, pagg. 209, euro 15) di Marco Balzano e Per sempre carnivori di Cosimo Argentina (minimumfax, pagg. 190, euro 14). Il primo è una storia molto ben raccontata (Balzano ha il talento dell'affabulatore) di un insegnante meridionale, Giuseppe, in trasferta milanese: dove l'insegnamento in senso stretto, però, resta sullo sfondo. Forse per una forma paradossale di rimozione, visto che il prof non ha un buon rapporto con gli studenti: «Mi venivano le lacrime agli occhi e l'unico pensiero che avevo era trovare un modo per non andare il giorno dopo a scuola, esausto dei teppistelli che c'erano in classe... Mi sentivo offeso e trattato a pesci in faccia da tutti, anche dai quindicenni». Senza contare che Giuseppe vorrebbe percorrere la carriera universitaria e dunque il mestiere di insegnante (ma il finale riserva una sorpresa) è solo un ripiego.
Come è un ripiego per i colleghi di Leone Polonia, la «voce» del romanzo di Cosimo Argentina: «La scuola era il regno dei premi di consolazione. A scuola trovai gli architetti che non erano in grado di progettare, i letterati senza fantasia e talento, i germanisti senza traduzioni e gli avvocati senza procura». Spinto dai morsi della fame, Polonia accetta una supplenza in un istituto tecnico per ragionieri di Ginosa, in Puglia. «Scienza delle finanze e diritto... Avrei provato a fare il ciarlatano e mi sarei giocato la carta educativa». Un mese dopo, ha già raggiunto una certa disinvoltura: «Bocciavo, defenestravo e scannavo alunni e alunne e poi gocciolante di sangue m'avvicinavo ad un abbeveratorio di pietra e lì immergevo la mia carne per lavarmi e togliermi di dosso il marchio ematico del mio squallido lavoro. In fondo eravamo un branco di pezzenti che strisciavamo per un certificato di servizio e un centomila ogni tanto». Sospeso fra Bukowski e, perché no, Gadda (per l'uso efferato ed iperbolico di un lessico rubato a cinque o sei discipline diverse), dopo duecento pagine di alcol, sesso e perdizioni il giovane docente di diritto giungerà a contemplare la testa mozzata di un compagno di bagordi, rotolata sulla spiaggia.
Dalla commedia alla tragedia?
Come un personaggio di Ivy Compton-Burnett, forse Sandrucci osserverebbe che «in realtà è tutta tragedia: con vera perfidia, la chiamiamo commedia quando riguarda gli altri».
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/897860.html 


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