Credenze religiose, superstizioni, leggende, hanno intrecciato nel sorso dei secoli e in ogni dove le più belle, poetiche, terribili fantasie, cercando di dare una o più plausibili risposte al quesito della morte e alla questione dell’Aldilà.
Noi sappiamo come stiamo qui, sulla Terra, e sappiamo di essere composti di un corpo e di una parte immateriale/spirituale; dopo la morte, lo spirito abbandona il suo involucro di carne. Si cerchi, dunque, di preservare dalla distruzione questo contenitore, auspicando che lo spirito, nell’Altro Mondo, possa godere di qualche favore in più. Questo ragionamento, classico per gli Egiziani antichi, e che è stato combattuto anzitutto dal Sant’Agostino e da tutta la Chiesa, è però un modo di pensare abbastanza comune a molte società, primitive e non.
Ecco quindi che, in tutto il mondo si sono sviluppate le tecniche imbalsamatorie, soprattutto là dove le condizioni climatiche non permettevano una mummificazione naturale.
America
In Canada e negli Stati Uniti, i reperti provengono dall’Alaska, Isole Kodiak, Aleutine e Vancouver, Columbia, Montana, Utah, Wyoming, Nevada, Arizona, Nuovo Messico, Virginia, Nord e Sud Carolina, Kentucky, Tennessee e Florida. Secondo Yarrow (1881), la mummificazione precolombiana in Nord America avveniva per semplice essiccazione (con fumo, fuoco o freddo a seconda delle regioni), anche con preventiva eviscerazione. Infatti, in climi molto freddi, come presso gli Aleuti dell’Alaska, basta esporre la salma all’aria perché si conservi indefinitamente.
Il popolo della Virginia conservava religiosamente i corpi dei suoi re. Prima di tutto tagliavano la pelle del cadavere per tutta la lunghezza del dorso e il morto veniva interamente scuoiato. Le ossa erano poi liberate dalla carne, ma senza tagliare i legamenti, in modo che lo scheletro veniva rimesso nella sua pelle, che intanto era stata mantenuta umida ed elastica con olio e grasso. Si completava l’operazione riempiendo poi gli spazi lasciati vuoti dalla carne con sabbia finissima, e ricucendo la pelle.
Il cadavere così imbalsamato era portato in una speciale tomba e deposto, assieme agli altri sovrani defunti e preparati alla stessa maniera, su un grande plancito sollevato dal terreno e ricoperto da un lenzuolo per preservarlo dalla polvere. La sua carne, esposta al Sole e ben secca, racchiusa dentro una cesta, veniva esposta ai piedi del cadavere. In questa tomba comune di monarchi, si trovava una statua del dio Kiwasa, guardiano dei corpi dei defunti, e un sacerdote vegliava giorno e notte mantenendo un fuoco acceso.
Earl H. Morris, noto archeologo americano, condusse ricerche un po’ ovunque, ma i suoi scavi più importanti, tra il 1916 e il 1921, sono certamente quelli del pueblo (= costruzioni a più piani, abbarbicate sulle ripide pareti del canyon, in cavità naturali della roccia o sulle sommità dei rilievi) Aztec, le cui rovine, che nulla hanno a che fare, in realtà, con gli Aztechi, si trovano nel Nuovo Messico, nella fertile vallata del fiume Animas, al confine con il Colorado.
Dunque, in uno di questi pueblo, nel canyon del Muerto, Earl Morris trovò, sotto il pavimento delle numerose stanze che lo componevano, un’incredibile quantità di vasi, ceste, scheletri e mummie avvolte in stuoie a rete: con la dendrocronologia si datò il tutto all’inizio del XII secolo.
Intanto, nello stesso periodo, un altro giovane archeologo, Alfred V. Kidder, scavava a Pecos, sempre nel Nuovo Messico, in una grande necropoli intatta: al termine degli scavi, che si protrassero dal 1915 al 1929, il numero totale degli inumati rinvenuti, tra scheletri e mummie, ammontava a ben milleduecento.
Nell’America Centrale, anche se prevale a cremazione, si sono trovate mummie nella regione mixteco-zapoteca dello Yucatan, in Guatemala, in Costa Rica e a Panama. Così pure in Colombia e, delle due mummie trovate nella regione di Maracaibo, in Venezuela, una era stata sottoposta a eviscerazione attraverso un’incisione perineale.
Nel Cile si conoscono due tipi di mummificazione artificiale:
1) mummie ricoperte di fango senza alcuna eviscerazione;
2) mummie preparate in questo modo:
a) svuotando la cavità cranica, toracica e addominale;
b) riempiendo dette cavità con piume, pezzi di legno, cuoio ecc.;
c) trattando poi la superficie esterna del cadavere con sostanze e oggetti per ridare le caratteristiche che aveva in vita.
Vicino a Santiago del Cile si eleva a 5400 metri il monte El Plomo, sul quale, nel 1954, si trovò una mummia, conservata naturalmente per congelamento, di un bambino di 8-9 anni, seduto con le gambe incrociate, vestito con una tunica andina e uno scialle annodato sotto il collo. Calzava delicati mocassini di cuoio con ornamenti ricamati. La pettinatura, consistente in numerose treccine, era sostenuta da un
Ben più famosa è a mummia del Cerro El Toro, trovata nel 1964 a 6300 metri sul livello del mare e che può essere considerata la sepoltura più alta del mondo. Si tratta del cadavere di un uomo molto giovane, sui vent’anni circa. Il suo corpo ha subito un processo di mummificazione naturale per congelamento, con parziale intervento del clima secco dell’altezza.
La pelle fu trovata fortemente indurita; la mummia è in posizione pronunciatamente ripiegata, con le mani davanti al petto, cosa che indica che fu collocata così intenzionalmente. La testa è un po’ inclinata verso destra, manca la capigliatura e il cranio è visibile; i lineamenti del volto, fini e con un’espressione serena, si sono conservati quasi perfettamente come il resto del corpo. Naturalmente, accanto alla mummia fu trovato tutto il suo ricco corredo. Secondo gli studiosi, si sarebbe trattato di un sacrificio umano compiuto dagli Inca durante la loro breve dominazione in queste regioni più meridionali del loro impero. Non si è invece potuto determinare con precisione la causa diretta della morte. Lo stesso si può dire del bambino del monte El Plomo e, come in questo caso, c’è da supporre che la causa diretta sia stata il congelamento.
In Ecuador i Jivaro e in Brasile i Mundurucù praticavano la mummificazione delle teste, così come la si trova in Asia (Bengala), nelle Filippine, nel Borneo, nella Nuova Guinea (Papuasia), nei Caraibi e in alcune zone della foresta equatoriale africana.
Vedere una testa mummificata (ma sarebbe più corretto dire “affumicata”) dai Mundurucù è davvero impressionante. Anche se con il tempo la pelle si incartapecorisce, i capelli rimangono soffici a lungo, mentre l’aspetto generale è quello di una persona ridotta alla cecità e costretta a portare due ripari di cuoio sopra le palpebre. Se non fosse per il fascio di cordicelle che gli pende dalla mandibola, il macabro trofeo non stonerebbe affatto in una capanna del Borneo, fra i temibili Dayaki.
I Toltechi e gli Aztechi
Verso il 1500 a.C. i morti delle prime popolazioni agricole della valle del Messico finivano nei letamai davanti alla casa, non per mancanza di rispetto, ma perché era più facile scavare nel cumulo di rifiuti che nella terra vergine, avendo a disposizione solo strumenti di legno.
Poi le cose cambiarono: si diffuse l’antropofagia.
Sino a che punto il cibarsi di carne umana fosse frequente tra gli Aztechi è ancora oggi oggetto di discussione. È certo però che a volte i sacerdoti dovevano mangiare simbolicamente un pezzo di una vittima propiziatoria, o almeno ne compivano il gesto; inoltre, il dio Xipé (il dio scorticato sul quale poco si sa) veniva onorato donandogli le pelli e le carni delle vittime sacrificali ancora vive. Ma, se è vero che non esitavano a strappare pelli e cuori alle loro vittime, davanti alla morte dei loro capi, gli Aztechi tenevano un comportamento ben diverso. Prima di tutto, il moribondo doveva confessare allo stregone i suoi peccati (e i parenti superstiti dovevano scontare in vari modi le azioni antisociali del defunto). Poi si preparava il cadavere: per prima cosa, gli si metteva in bocca una giada, con funzione simile a quella dello Scarabeo sacro che gli Egizi mettevano sul cuore del defunto per il viaggio nell’Aldilà.
Si preparavano cibi e bevande e si completava la fasciatura del corpo. Quasi tutti venivano cremati, ma i personaggi più importanti erano seppelliti e il particolare clima favoriva la mummificazione dei corpi. Il lutto durava ottanta giorni, nei quali i membri della famiglia dovevano rispettare tutta una serie di tabù e imposizioni. Per esempio, oltre a pregare, si doveva offrire al morto del sangue, tagliandosi le orecchie e la lingua. Dopo ottanta giorni tutto era finito.
I Maya
Quando un Maya moriva, veniva avvolto in un sudario, per lo più il suo stesso mantello, detto manta, gli si riempiva la bocca di granoturco macinato e qualche piccola giada, poi veniva sepolto sotto il pavimento di terra battuta della sua casa, con tutti gli oggetti che gli erano appartenuti in vita.
I nobili erano invece inumati nelle piazze delle città-templi, sontuosamente vestiti, con collane e monili. Più tardi, nello Yucatan, i nobili saranno cremati e le loro ceneri messe in urne di legno o di terracotta. Sempre per la secchezza del clima, sono state ritrovate alcune mummie maya.
Gli Inca
Come nella vita, così anche nella morte, l’uomo comune era diverso dal nobile. La sua dipartita era accompagnata, come la sua nascita, da una cerimonia semplicissima: si fasciava il cadavere dalle ginocchia al mento, lo si avvolgeva nella sua tunica e lo si copriva con un panno. Sulle Ande lo si seppelliva sotto una sporgenza rocciosa, poi si murava l’ingresso con pietre e fango. Veniva posto in posizione seduta con attorno cibo, bevande e gli oggetti personali. Poiché credevano nell’immortalità dell’anima, il morto diventava un huaca, cioè un essere divino e misterioso ed era bene non recargli offesa, ma propiziarselo. Se moriva un nobile o l’Inca le cose andavano diversamente.
Alla morte del Sapa-Inca, cioè dell’imperatore, tutto il regno prendeva il lutto. Tutte le sue concubine e i suoi servi lo seguivano nell’Oltretomba: dopo averli ubriacati, li strangolavano.
Il cadavere dell’imperatore veniva imbalsamato, rimuovendo gli intestini e sostituendoli con stoffa impregnata di balsami e droghe. Se sugli umidi altipiani andini la conservazione del cadavere costituiva un problema di difficile soluzione, nell’arido deserto costiero il calore del Sole e la sabbia sterile e porosa favorivano l’essiccazione e la naturale mummificazione del corpo. In ogni caso, il defunto veniva collocato nel suo palazzo e gli si ergeva una statua d’oro a grandezza naturale, cui si serviva regolarmente da mangiare come se fosse vivo.
Nel 1927 l’archeologo peruviano Tello scoprì a Cerro Colorada – nella regione meridionale del Perù, ove fiorì, tra il 300 a.C. E il 200 d.C. La civiltà di Paracas – le famose “Cavernas”. Queste sono dei pozzi profondi a forma di bottiglia con il fondo piatto. Nella parte superiore vi è una specie di vestibolo, una piccola rotonda con mura di pietra mescolata ad ossa di balena. Al centro, un’apertura circolare dà accesso al lungo collo scavato nel porfido rosso; alcune tacche nelle pareti permettono la discesa in verticale fino ad una camera semisferica ove sono alloggiate le mummie. Queste, dai lunghi capelli neri, grossi e ispidi, con una fionda o un pugnale d’osso attaccati al polso, sempre accompagnate dal loro cane dal pelo giallo, erano avvolte in sontuosi mantelli.
Per proteggere i loro defunti dalle ingiurie del tempo, i Peruviani di 2000 anni fa avevano cucito i cadaveri in sarcofaghi ovoidali, ma di cotone bianco fine e cucito a punti lunghi, detti fardos, e ricoperti ancora con pelli di foca e stuoie di canna poste come copertura su costole di balena.
Le tecniche di imbalsamazione di Paracas pongono però parecchi strani problemi: sui cadaveri e sui mantelli si è notato un liquido acre che indubbiamente serviva per la conservazione delle mummie, ma che provoca, in certe persone le cui mani siano state a contatto con i mantelli, curiose reazioni allergiche, come prurito e gonfiore.
Nel 1958, in Perù, si fece una scoperta sensazionale. A San Isidro, elegante quartiere a circa 5 km dalla capitale, Lima, venne alla luce la mummia di una donna con una “coda di cavallo” lunga oltre due metri, perfettamente conservata. I capelli erano talmente ben piantati nel cuoio capelluto che a fatica si poterono strappare per analizzarli. Subito questa donna, di circa 25 anni, fu battezzata la “Gran Sacerdotessa” di Waka Pan de Azùcar, appartenente cioè a quel sito archeologico chiamato “Walla-Marka”, comprendente Wakas Juliana, Limba Tambo e Santa Beatriz. “Walla” vuol dire “prateria”, “luogo verde e umido” e Waka significa “piramide sacra e luogo di sepoltura precolombiano” (ma questo popolo non inumava i suoi morti nelle piramidi).
Al nostra “Gran Sacerdotessa” era racchiusa in un enorme “fagotto” di tela bianca, sormontato da una maschera di tela rossa riempita di cotone, con una naso di legno e un falso “chignon” che coronava il tutto.
Ma quali metodi usavano i Peruviani per imbalsamare i corpi? Secondo gli storici, essi imbalsamavano facendo colare nella gola (o dal cranio, previa trapanazione della zona, secondo alcuni) dei liquidi estratti da alberi tropicali e ungevano il corpo con resine, oppure impregnavano il corpo di bitume, mettendo poi delle lamine d’oro sugli occhi, sulla bocca, sul naso sugli altri orifizi naturali del corpo.
Il corpo del re o di un notabile veniva trattato togliendo gli intestini e imbalsamando il corpo con del balsamo portato da Tolù. In altri casi, si seccava il corpo del defunto col fuoco e col fumo, oppure veniva riempito di cenere calda. Ora, qualunque fosse il metodo di conservazione del cadavere, tutto doveva avere uno scopo religioso, come in Egitto. Il defunto non era divinizzato (come in Egitto lo era il Faraone), ma si trattava solo di prolungarne la vita nell’oltretomba, preservando il cadavere dalla corruzione.
Il defunto imbalsamato prendeva il nome di “Mallki”: nella lingua quechua significa sia “mummia” che “germinazione”, e questo perché gli antichi Peruviani pensavano che, come bisogna mettere sotto terra i semi perché diano delle piante, così bisogna seppellire i morti affinché rinascano degli uomini. Morti e semi formano un’equazione e li si ritrova accomunati nell’“ucupacha”, il mondo sotterraneo.
La maggior parte delle mummie peruviane si trova nelle necropoli sabbiose della magnifica baia di Ancon, a qualche chilometro a nord di Lima, dove un calcolo approssimativo permette di ipotizzare che siano oltre 30000 quelle sepolte nel loro sonno eterno.
Europa
Nelle torbiere della Danimarca numerosi sono stati i ritrovamenti di materiali preistorici che dimostrano come queste paludi fossero, in certi casi, considerate sacre. Probabilmente si trattava di offerte a divinità locali, consistenti in asce per un dio maschile e perle, vasi, collane, trecce di capelli e gioielli per una divinità femminile. Questo avveniva nel Neolitico e nell’Età del Bronzo.
Secondo antichi autori, quali Orosio e Giulio Cesare, venivano gettati nelle sacre paludi anche esseri umani, immolati come vittime al dio della guerra, naturalmente in caso di vittoria. Sono circa una ventina le paludi danesi che hanno restituito oggetti vari risalenti a un periodo compreso tra il 100 e il 600 d.C. Ma molte di più sono quelle che hanno restituito cadaveri umani perfettamente conservati.
Il gettare uomini nelle torbiere è un fenomeno limitato nel tempo, ma di grande estensione geografica: dall’Inghilterra, Scozia, Irlanda si passa all’Olanda, alla Germania del nord, allo Jutland settentrionale, alla Norvegia, alla Svezia e alla Danimarca. Sono oltre 500 i ritrovamenti europei databili tra il 100 a.C e il 500 d.C e ben 166 provengono dal territorio danese.
Sono uomini, donne e alcuni bambini che, gettati nudi o con pochi indumenti nella torbiera, presentano sempre evidenti segni di morte violenta: gole tagliate, crani spaccati, arti rotti, tracce di impiccagione ecc.
I luoghi più importanti che hanno restituito cadaveri sono: Tollund, Grauballe, Roum, Stidsholt, Borremose e altri per un totale di circa 25 località sparse in tutta la Danimarca.
L’uomo di Tollund
Si trattava di un adulto di sesso maschile, giacente sul fianco destro, come se dormisse, con le ginocchia contro lo stomaco, la mano sinistra sotto il mento, la desta sul ginocchio sinistro. La pelle era integra, le parti molli erano quasi completamente conservate ed un taglio appurò che anche gli organi interni erano in buone condizioni, compreso lo stomaco, tanto che perfino il suo contenuto poté venire analizzato.
Il volto sembrava quello di un uomo addormentato, con tratti nobili e tranquilli, con qualche ruga sulla fronte, gli occhi chiusi, le labbra sottili, i capelli corti che uscivano da un berretto di pelle e una barba di 2-3 giorni. Oltre al berretto formato da 8 pezzi di pelle cuciti assieme col pelo all’interno e fissato con un cordone sotto il mento, l’uomo di Tollund non aveva altro che una cintura alla vita.
Nonostante l’espressione di serenità, l’uomo era morto di morte violenta: lo prova una corda formata da due strisce di pelle intrecciate, avvinte strettamente con un cappio al collo del defunto. Il fatto che vi fosse un solco profondo sulla gola ma non sulla nuca fa pensare che egli sia stato impiccato, piuttosto che strangolato.
Date le difficoltà e il costo del processo, si decise di conservare solo la testa.
L’uomo di Grauballe
Due anni dopo, venne alla luce, nella torbiera di Grauballe (nei pressi di Viborg) un uomo che giaceva bocconi, completamente nudo. Apparve chiaro che era stato deposto nello scavo di un’antica torbiera; un’analisi pollinica indicò l’Età del ferro “romana”, cioè tra l’anno 0 e il 400 d.C.
Appena il cadavere venne girato sulla schiena si notò una lunga ferita dovuta ad arma da taglio che andava, lungo il bordo inferiore della mascella, dalla gola all’orecchio destro, tanto profonda da raggiungere le vertebre del collo.
Un esame accurato appurò che il defunto si era conservato per un processo simile alla conciatura, causato dall’acido umico e dal contenuto ferroso dell’acqua della torbiera che aveva reso la pelle molto resistente e aveva impedito la putrefazione. Le ossa erano decalcificate e molli; una radiografia mostrò inoltre una frattura del cranio ed una alla parte inferiore della gamba sinistra, apparentemente subite o immediatamente prima o immediatamente dopo la morte. Altre piegature e lussazioni, invece, pare siano molto più tarde e dovute al peso della torba.
Una forte corrosione alla superficie dei denti ed una leggera degenerazione morbosa di tipo artritico alla spina dorsale (Spondylosis deformans), malattia comune ancor oggi in Danimarca ma per lo più tra persone al di sopra dei 30 anni, dimostrando che si tratta di un individuo di una certa età. La ferita al cranio sembra provocata da uno strumento ottuso, quindi da una percossa diretta, come pure quella alla gamba, dove la tibia è fratturata, ma non la fibula. Questa volta si tentò una conservazione totale, comprendente anche il corpo. Poiché il processo di conciatura iniziato nella torbiera non era ancor terminato, si pensò di continuarlo. Il direttore tecnico di una conceria di Aarhus consigliò la cosiddetta “conciatura in buca”, che venne eseguita con corteccia di quercia e acqua.
I diversi metodi di esecuzione riscontrati nei cadaveri delle paludi fanno pensare a diverse categorie di individui: traditori, disertori, vili, colpevoli di delitti contro la morale, oppure persone scelte a rappresentare una divinità o a rappresentare il clan di fronte alla divinità stessa.
Nel 1978, la stampa internazionale riportò la notizia del ritrovamento, a Stoccarda, di una tomba celtica di 2500 anni prima. La notizia è interessante perché non solo si trattava della tomba di un capo-tribù celtico vissuto cinque secoli prima di Cristo, ma soprattutto perché, oltre al suo carro di bronzo, alla lettiga, a piastre d’oro, a un pugnale con guaina di ferro, a una collana d’oro e a un vaso di bronzo etrusco – chiara testimonianza dei legami fra il Centro e il Sud Europa – nella tomba si trovò il corpo mummificato del principe. Naturalmente, fu il terreno a conservarlo così, perché non si è trovata traccia di imbalsamazione.
Il corpo è quello di una donna, alta 1,62 m, con i capelli rossicci e il corpo parzialmente ricoperto di lamine d’oro, secondo la migliore tradizione egizia. In una scatola a parte vi erano tutte le bende che avvolgevano il cadavere. Esaminando quelle bende, ci si accorse che recavano delle scritture su tutta la lunghezza della fascia, ossia 13,75 m. Ed ecco il colpo di scena: la scrittura fu giustamente interpretata, nel 1892, dal professore viennese J. Krall, come etrusca.
Molto probabilmente, nell’ultima fase della vita della nazione etrusca, oramai sottomessa a Roma, molti cittadini decisero di emigrare; uno di questi, forse per lavoro, andò in Egitto portando con sé un liber linteus (un libro di lino etrusco), un caro ricordo della patria lontana. Alla morte di una congiunta, il libro di stoffa fu tagliato a strisce e le bende usate per avvolgere il corpo imbalsamato, secondo l’uso egizio.
Veniamo ora a mummie più recenti. Nella Bassa Alvernia, a Martres, poco distante da Clermont-Ferrand, nel 1756 due contadini trovarono, in un prato molto umido, una fossa, profonda poco più di 30 cm, con al suo interno un sarcofago contenente la mummia di un bambino di 10-12 anni, molto antica e molto ben conservata.
Il cadavere era stato preparato come quello di un Egiziano, vale a dire con erbe e droghe, nonché bende e sudari. Le mani e i piedi erano però stati chiusi in sacchetti di tela pieni di erbe aromatiche; le orecchie, la lingua e le labbra avevano conservato il loro colorito e, fatto incredibile, gli occhi erano brillanti e vivaci. Inoltre tutte le articolazioni erano flessibili.
Naturalmente gli abitanti di Martres, vista l’incredibile conservazione di quel corpicino, decisero che il bambino dovesse essere un santo: lo trasportarono quindi nella loro chiesa. Ma, spinti da folle superstizione, lo fecero quasi a pezzi per ricavarne delle reliquie; il vescovo, impensierito, ordinò l’inumazione di ciò che rimaneva del cadavere. Poco dopo, la magistratura di Riom fece però riesumare la salma e la fece esporre in una bara di vetro nell’ospedale locale, come oggetto di curiosità e per poter ricavare qualche offerta in favore dell’ospedale stesso.
Parigi reclamò il corpo del bambino, che nel 1790 fu trasportato nel Museo di Storia naturale della città, oramai devastato da tutte le vicissitudini subite.
Famose erano le mummie che si potevano vedere nei sotterranei dei monasteri delle Francescane e dei Domenicani di Tolosa. Questi cadaveri provenivano dalle tombe del chiostro e della chiesa; si pensava che fossero così ben conservate a causa della calce spenta, usata per la costruzione della chiesa stessa.
A Bordeaux si trova la Tour St. Michel, che sorge isolata di fronte all’omonima chiesa e ne costituisce il campanile. In puro stile gotico, coronata da una leggera guglia a trafori, è alta 114 m, con 26 m di circonferenza. In cerchio lungo il muro e protetti da una balaustra di legno, settanta cadaveri mummificati guardano i visitatori con le loro orbite vuote, le teste inclinate da una parte, le bocche spalancate. Queste mummie vennero esumate nel 1810 da un cimitero vicino e risalgono tutte al 1500 circa.
Nell’isola di Tenerife dell’arcipelago delle Canarie, molti corpi di pastori, inumati in quelle sabbie laviche, si mummificano naturalmente. Per ragioni di studio, alcune di queste mummie sono state portate al Trinity College di Cambridge. Restando nelle Canarie, c’è da segnalare la più antica descrizione di imbalsamazione, lasciataci da Fra Alonso de Espinosa nel 1594.
L’autore racconta che il corpo del defunto, dopo essere stato lavato, veniva preparato versandogli nella bocca un miscuglio di burro fuso, polvere di erica e di pietra tufacea, corteccia di pino e di altre piante, ecc., per vari giorni. Il cadavere veniva poi lasciato al Sole per cinque giorni, voltandolo ora da una parte, ora dall’altra; poi il corpo era cucito in pelli di animali.
Diversa è la preparazione riferita da Fra Juan Abreu Galindo (1632). Il defunto era lavato due volte al giorno con acqua fredda, poi unto con burro e infine cosparso di polvere di pino, di tufo, di pietra pomice, ecc.
Ad ogni modo, gli aborigeni delle Canarie (detti “guanches”) non usavano un processo standard di imbalsamazione, poiché esso variava anche a seconda della classe sociale del defunto e della sua posizione economica.
Il famoso “Cavallo e cavaliere” è del 1771. Trattasi di un destriero con in groppa il suo cavaliere, non imbalsamati nel senso comune del termine; Sullo scheletro sono messi in evidenza i tendini e i muscoli, le vene e le arterie, ma non nella loro integrità, bensì sollevati, svolazzanti, accartocciati, laminati o a tutto tondo. Purtroppo, il tempo e l’incuria umana hanno fatto la loro parte sui lavori di Fragonard: delle migliaia di preparati ne sono giunti a noi non più di una dozzina.
A Dublino, in Church Street, si trova la chiesa di St. Michan, nella cui cripta si conservano parecchi corpi mummificati naturalmente. Si dice che sia stata proprio l’atmosfera macabra di questi sotterranei ad ispirare a Bram Stoker diversi particolari de suo fortunatissimo “Dracula”.
Un caso di moderna idolatria “mummiesca” è certamente quello che si verificava a Mosca, dove il corpo imbalsamato di Lenin (e una volta quello di Stalin) era esposto al culto dei moscoviti e dei pellegrini che giungevano in Russia per rendere omaggio al loro leader.
A parte, approfondiremo la mummificazione nell’antico Egitto e vedremo cosa l’Italia ci può riservare in fatto di mummie…
Written by Alberto Rossignoli
Info
Pratiche di mummificazione (parte 1)
Fonte
R. Grilletto, “Il mistero delle mummie”, Grandi Tascabili Economici Newton”, Roma 1996