Precoce interruzione del "sentimento nazionale"

Creato il 02 aprile 2011 da Zfrantziscu
Con le iniezioni da cavallo di retorica patriottarda somministrate agli italiani, il “sentimento nazionale” e la “coesione nazionale” sembravano essersi messi stabilmente in circolo in alcune decine di milioni di persone. Anche con esiti inquietanti, come mi è capitato di costatare un paio di giorni fa in un bar del mio paese: un bimbo di quattro anni si è messo a cantare l'inno di Mameli, insegnato – ho saputo – dalle maestre dell'asilo pubblico a lui e agli altri figli della Lupa suoi coetanei che schiavi di Roma Iddio li creò.
Quanto sta succedendo in questi giorni di sbarchi di profughi e di clandestini sta lì a dimostrare che la verniciata di amor patrio data sulla Penisola e sulle Isole era una patina sottile e neppure di buona qualità. Non ha resistito se non una decina di giorni dopo l'apoteosi del 17 marzo. Le regioni, investite dal Governo della necessità di mostrare “coesione nazionale” e chiamate ad ospitare i futuri immigrati, stanno facendo i loro conti e rispondono sì o no secondo le rispettive compatibilità. È ovvio che così sia, posto che solo chi conosce il proprio territorio e lo amministra è in grado di decidere qualità e quantità dell'accoglienza, ma anche se sia possibile accogliere clandestini o profughi o entrambi. Capita, così, che anche uno sventolatore di tricolore come il sottosegretario Mantovano abbia messo da parte il “sentimento nazionale” e si sia curvato sulla propria regione, preferendo poi la sua solida piccola patria a quella grande ed evanescente.
All'interno di tutte le regioni, e non solo quella pugliese, spetterà alla dialettica fra maggioranza e opposizione far sì che non prevalgano gretti egoismi o, al contrario, la demagogia e il cinismo di chi dall'una parte e dell'altra sventola lo stendardo del tanto peggio tanto meglio. I vedovi inconsolabili del centralismo dei bei tempi che furono (peggiore persino di quel che viviamo) gridano allo scandalo e chiedono decisioni accentrate plaudendo alla minaccia di Maroni (“agiremo d'imperio”) con la quale il ministro leghista ha svelato quale sia il concetto corrente di federalismo. Aumentare la paghetta alle regioni, alle province e ai comuni, dar loro la chiave di casa ma stabilire tassativi orari per il rientro sotto il tetto materno, di per sé a rischio di crollo.C'è in giro aria di guerra civile, “a bassa intensità” per ora. Nella piazza c'è chi è convinto di essere a Tripoli o a Damasco, che il Governo italiano sia come quello di Gheddafi o di Assad e che essi siano gli intemerati ribelli al tiranno. Fuori della piazza e dentro il Parlamento si è allo scontro fisico e alla reciproca delegittimazione intorno ad una legge che una maggioranza vuole e una opposizione contesta, sia nell'aula sia nella piazza. Chi abbia ragione è l'ultima delle preoccupazioni. Chi ricorda le barricate fatte contro la “Legge truffa” (che poi tanto truffa non era) o quelle montate contro la Nato (oggi osannata da chi le fu ferocemente contro) certo non avrà avuto timore di quanto è successo in questi giorni. Un po' di rimpianto per quelle intemperie lo avrà, semmai, chi assiste alla bolsaggine di una maggioranza che fa delle forzature senza riuscirci, travolta nel ridicolo di non esser capace neppure di far approvare un processo verbale.Quel che dà il senso del precipizio sul cui orlo è lo Stato italiano sono i contorcimenti di tutta la politica che da un lato vorrebbe spargere su tutto lo “Spirito generale della Nazione” e dall'altro dimostra nei fatti che non questo spirito ma neppure quello dello Stato esiste. L'Italia è in guerra e la società politica che l'ha dichiarata pare sul crinale di una guerra civile, dando ai partner europei e atlantici l'immagine di uno stato inaffidabile proprio per i suoi conflitti interni non più frutto di una dialettica, ma di reciproche delegittimazioni. Solo un residuo di responsabilità ha fatto sì che il maggior partito dell'opposizione dicesse no all'invito sciagurato di una sua parte di “salire sull'Aventino”. Non è tanto l'atto concreto, ritirarsi dal Parlamento, già di per sé sciocco a inquietare; è il solo pensarci, segnalando a chi non aspetta altro che Berlusconi è Mussolini e la maggioranza una riedizione del Partito nazionale fascista. Che si è, insomma, in una dittatura la quale si può solo rovesciare come gli egiziani han fatto a Il Cairo e i libici tentano di fare a Tripoli.Non so se ha precedenti la convocazione urgente dei capi banda al Quirinale, dove Napolitano li ha strigliati. Ma già edita o inedita che sia, la strigliata significa che c'è atmosfera da punto di non ritorno. La corsa verso il baratro dovrebbe, a quel che si capisce, avere una sola possibilità di arresto: la consegna della testa di Berlusconi o, per i più moderati, il suo esilio. Dubito che quell'uomo a ciò si rassegni, ma se anche fosse? I fans del presidente del Consiglio certo non si rassegnerebbero e avrebbero qualcosa di pesante da dire (o da fare). Né questo bloccherebbe il disfacimento di uno stato che, contrariamente a quanto dicono per autoconsolarsi gli unitaristi, non ha guai perché giovane, ma perché nato decrepito, costretto persino ad inventarsi una storia diversa da quel che è.Ma c'è una domanda di fondo che ci riguarda da vicino: la Sardegna che ci sta a fare? Continua a dividersi appoggiando l'uno o l'altro dei principi che a Madrid si schierano con l'uno o con l'altro pretendente al trono di Spagna. Pa’ noi non v’ha middori, non impolta lu ch’ha vintu, o sia Filippu Quintu o Càrralu imperadori” cantavano gli antichi galluresi. Possibile che si sia ancora a questo?

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