Preferisco essere Cyborg che Dea

Creato il 25 novembre 2013 da Eymerich

Donna Haraway e il manifesto Cyborg. Una riflessione per la Giornata contro la violenza sulle donne e non solo.

In molti mi dicono che sono un po’ Nerd. E’ vero, mi piacciono le cose strambe e, come molti rappresentanti di questa categoria volatile, adoro la fantascienza. Viaggispaziali, Robot, battaglie galattiche, viaggi nel tempo, teorie pseudoscientifiche e cyborg. Si, i Cyborg. Ci ho fatto addirittura un seminario all’università. Questo è un articolo per la giornata della violenza contro le donne, ma allora, vi chiederete voi, che cosa diavolo centrano i Cyborg? Bè, i Cyborg centrano eccome, in quanto vorrei rendere un breve omaggio all’audace lavoro di una delle pensatrici più originali del nostro tempo, che, a mio parere, offre spunti interessanti per ripensare al rapporto tra i generi. Donna Haraway, classe 1944, cattedra presso il dipartimento di “History of Consciousness” dell’università di Santa Cruz, professoressa della European Graduate School dove insegna “femminismo e tecnoscienza” e autrice del celebre “Manifesto Cyborg” del ’91.

La storia della cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura concettuale basata su coppie di categorie come uomo/donna, naturale/ artificiale, corpo/mente. Questo dualismo non è mai alla pari, ma al contrario comporta sempre un dominio di una parte sull’altra. Da questa premessa la coraggiosa e beffarda proposta della Haraway: “Mi propongo di costruire un ironico mito politico fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo. E forse più fedele ancora: come l’empietà, e non come la venerazione o l’identificazione. Al centro della mia fede ironica, della mia empietà, c’è l’immagine del cyborg. [..] La biopolitica di Michel Foucault non è che una fiacca premonizione di quel campo aperto che è la politica del cyborg.”In questo “campo aperto”, in primo luogo ci sono i “cedimenti di confine”. I confini che crollano sono quelli dei dualismi, quelli del dominio di un categoria sull’altra, della disparità che rende schiavi e succubi. Partendo dall’analisi della nuova influenza diretta della scienza e della tecnologia sui rapporti sociali, la Haraway, erige il cyborg come simbolo dell’ indeterminatezza delle identità tradizionali che ora devono essere costantemente rinegoziate.Si parla sempre a partire da unasituazione, da un corpo, da una condizione, non c’è alcun punto di vista assoluto e non marcato. Il nostro sapere è sempre situato. Le considerazioni di Donna Haraway risiedono all’interno del dibattito femminista , ma partono consapevolezza di una condizione storicamente determinata e per questo possono produrre metodologie efficaci per la comprensione e l’intervento sulla realtà.Il punto fondamentale del discorso della filosofa americana è che i processi di ibridazione tecnica e sociale esonerano i soggetti dalla necessità di riferirsi ad un “mito di fondazione”. Un vagheggiamento dell’origine come ancoraggio per legittimare l' identità individuale e collettiva e quindi anche le opposizioni categoriali al suo interno. A questo mito non si sono riferiti solo il capitalismo e il patriarcato ma anche i loro antagonisti nel corso della modernità, come il marxismo e il femminismo. Questi si sono arenati nella teorizzazione di un soggetto rivoluzionario a partire da una gerarchia di oppressioni, da una posizione latente di superiorità morale o di innocenza. Il Cyborg , invece, non ha origine, è elemento processuale e fluido. La sua immagine metaforica, trasmutata nella prassi reale, può indicarci una via per uscire dalla prigione delle dicotomie: “Questo è il sogno non di un linguaggio comune, ma di una potente eteroglossia infedele. E’ l’immaginazione di una femminista invasata che riesce a incutere paura nei circuiti dei supervalori della nuova destra. Significa costruire e distruggere identità, relazioni, storie spaziali. Anche se entrambe sono intrecciate nella danza a spirale, preferisco essere cyborg che Dea”Se nel fenomeno della violenza sulle donne è ancora presente il germe concettuale di un rapporto oppressivo e giustificato da un mito originario, la provocazione della Haraway, ci porta verso lo smantellamento di questo mito, a favore di un ripensamento dei rapporti tra i generi e della rinegoziazione continua della propria identità individuale e collettiva.


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