Una trentina d’anni fa, quando Karol Wojtyla cominciava a mietere successi da popstar coi suoi tour intercontinentali, e la macchina mediatica che doveva rappresentarci il «ritorno del sacro» era già a pieno regime, un giornalista, José María Javierre, chiese a un politico, Alfonso Guerra González, quale fosse la sua opinione riguardo alla grande simpatia che Giovanni Paolo II andava raccogliendo ovunque, anche tra i non credenti, e all’onda di entusiasmo che un papa come quello andava sollevando in seno a una Chiesa fin lì arroccata in difesa, quasi rassegnata a subire i micidiali colpi della secolarizzazione che le venivano inferti ormai da decenni. La risposta fu che non ci fosse alcun motivo di stupirsene, perché in Vaticano – disse – non mancavano «persone straordinariamente furbe»: «Giocano con tutte le carte in mano – aggiunse – e sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo per difendere i propri privilegi, in grado di salire su qualsiasi treno, senza farsi troppi scrupoli». Non starebbero lì da due millenni, potrebbe essere la chiusa, se non avessero fatto del cinismo, dell’ipocrisia e dell’opportunismo una categoria dello spirito. D’altronde la consegna era stata chiara fin dall’inizio: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti» (Mt 10, 16).Traggo questo scorcio d’intervista dal capitolo finale di un libro che mi pare di aver già citato in una o due occasioni, La larga marcha de la Iglesia (1985), pubblicato in Italia una dozzina d’anni dopo da Jaka Book col titolo Momenti cruciali nella storia della Chiesa (1996), di cui è autore Juan María Laboa, più apologeta che storico, che così commenta le crude affermazioni di Alfonso Guerra González: «Significa disconoscere la presenza continua in seno alla Chiesa di uno sforzo e di una ricerca laboriosa di un mondo più giusto e fraterno, l’esistenza di innumerevoli persone che lavorano e si fanno in quattro per gli altri, la vita di milioni di persone semplici la cui unica luce e speranza si riassumono nel Vangelo e nella Chiesa».Si tratta di un argomento che è speso quasi solo in difesa fin dai tempi della Lettera a Diogneto, dunque da ben prima che la Chiesa cumulasse privilegi in una posizione egemone sul piano politico e su quello culturale: le accuse che le erano mosse, nei primi secoli, si limitavano a quella di essere una forza eversiva, come in realtà era davvero, per quanto facesse voto di obbedienza al potere temporale che comunque, diceva Paolo, viene da Dio (Rm 13, 1-6). Allora come oggi, si tratta di un argomento che ha qualche indubbia efficacia per chi voglia limitarsi a guardare la Chiesa in superficie, per ciò che mostra al mondo, soprattutto al mondo che la guarda con sospetto. D’altra parte, non sarà sfuggito il cortocircuito nella difesa di Juan María Laboa, che è una rielaborazione: è «in seno alla Chiesa» – dice – che «luce e speranza» trovano insieme il mezzo e il fine, sicché «farsi in quattro per gli altri» torna utile a quella che in senso lato è l’economia della Chiesa stessa, e cioè la salvezza eterna del popolo di Dio. Se questa strumentalità del «farsi in quattro per gli altri» è apparsa sempre più frequentemente come la ragione sociale della Chiesa è perché gli attacchi che le sono stati mossi sono diventati sempre più frequenti, e tuttavia torna costante il richiamo al fatto che non è una ong, e che il prossimo altro non è che immagine di Dio, che la carità altro non è che la contropartita della verità: le opere di misericordia corporale sono la capsula che riveste quelle di misericordia spirituale, il samaritano ti soccorre per reclutarti.Tutto sommato, il mondo è solo l’occasione che la Chiesa sente le sia stata data per traversare il tempo, e proprio perciò il volume di Laboa è prezioso: delinea un atteggiamento (trattandosi di un’istituzione che si dà statuto di comunità organica, potremmo parlare di un istinto) che condiziona lungo i secoli la natura del rapporto tra Chiesa e mondo di là da ogni specifica contingenza storica. Senza scendere nel dettaglio, e affidandoci alla sintesi offertaci dalla simbologia cristiana, la Chiesa si sente barca, il mare in cui naviga è il tempo terreno, e il mondo è l’onda che solca, ora favorevole, ora avversa. Quando le è favorevole, è il momento di spiegare le vele: la verità di cui si sente depositaria e custode pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa. Quando le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare pericolosamente, le vele vengono ammainate: è il momento della carità.Va avanti così da sempre: due passi avanti ed uno indietro, ieri, due passi indietro ed uno avanti, oggi. Se ieri serviva a guadagnare posizioni, oggi serve a non perderne troppe. Cinismo, ipocrisia e opportunismo, dicevamo, sono connaturate alla Chiesa: strumenti che hanno natura e funzione analoghe a quelle degli enzimi, la cui sequenza degli aminoacidi è scritta nel dna di cui sono modulatori per la loro stessa sintesi. Durare per durare: il resto – tutto il resto – mero epifenomeno.
Una trentina d’anni fa, quando Karol Wojtyla cominciava a mietere successi da popstar coi suoi tour intercontinentali, e la macchina mediatica che doveva rappresentarci il «ritorno del sacro» era già a pieno regime, un giornalista, José María Javierre, chiese a un politico, Alfonso Guerra González, quale fosse la sua opinione riguardo alla grande simpatia che Giovanni Paolo II andava raccogliendo ovunque, anche tra i non credenti, e all’onda di entusiasmo che un papa come quello andava sollevando in seno a una Chiesa fin lì arroccata in difesa, quasi rassegnata a subire i micidiali colpi della secolarizzazione che le venivano inferti ormai da decenni. La risposta fu che non ci fosse alcun motivo di stupirsene, perché in Vaticano – disse – non mancavano «persone straordinariamente furbe»: «Giocano con tutte le carte in mano – aggiunse – e sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo per difendere i propri privilegi, in grado di salire su qualsiasi treno, senza farsi troppi scrupoli». Non starebbero lì da due millenni, potrebbe essere la chiusa, se non avessero fatto del cinismo, dell’ipocrisia e dell’opportunismo una categoria dello spirito. D’altronde la consegna era stata chiara fin dall’inizio: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti» (Mt 10, 16).Traggo questo scorcio d’intervista dal capitolo finale di un libro che mi pare di aver già citato in una o due occasioni, La larga marcha de la Iglesia (1985), pubblicato in Italia una dozzina d’anni dopo da Jaka Book col titolo Momenti cruciali nella storia della Chiesa (1996), di cui è autore Juan María Laboa, più apologeta che storico, che così commenta le crude affermazioni di Alfonso Guerra González: «Significa disconoscere la presenza continua in seno alla Chiesa di uno sforzo e di una ricerca laboriosa di un mondo più giusto e fraterno, l’esistenza di innumerevoli persone che lavorano e si fanno in quattro per gli altri, la vita di milioni di persone semplici la cui unica luce e speranza si riassumono nel Vangelo e nella Chiesa».Si tratta di un argomento che è speso quasi solo in difesa fin dai tempi della Lettera a Diogneto, dunque da ben prima che la Chiesa cumulasse privilegi in una posizione egemone sul piano politico e su quello culturale: le accuse che le erano mosse, nei primi secoli, si limitavano a quella di essere una forza eversiva, come in realtà era davvero, per quanto facesse voto di obbedienza al potere temporale che comunque, diceva Paolo, viene da Dio (Rm 13, 1-6). Allora come oggi, si tratta di un argomento che ha qualche indubbia efficacia per chi voglia limitarsi a guardare la Chiesa in superficie, per ciò che mostra al mondo, soprattutto al mondo che la guarda con sospetto. D’altra parte, non sarà sfuggito il cortocircuito nella difesa di Juan María Laboa, che è una rielaborazione: è «in seno alla Chiesa» – dice – che «luce e speranza» trovano insieme il mezzo e il fine, sicché «farsi in quattro per gli altri» torna utile a quella che in senso lato è l’economia della Chiesa stessa, e cioè la salvezza eterna del popolo di Dio. Se questa strumentalità del «farsi in quattro per gli altri» è apparsa sempre più frequentemente come la ragione sociale della Chiesa è perché gli attacchi che le sono stati mossi sono diventati sempre più frequenti, e tuttavia torna costante il richiamo al fatto che non è una ong, e che il prossimo altro non è che immagine di Dio, che la carità altro non è che la contropartita della verità: le opere di misericordia corporale sono la capsula che riveste quelle di misericordia spirituale, il samaritano ti soccorre per reclutarti.Tutto sommato, il mondo è solo l’occasione che la Chiesa sente le sia stata data per traversare il tempo, e proprio perciò il volume di Laboa è prezioso: delinea un atteggiamento (trattandosi di un’istituzione che si dà statuto di comunità organica, potremmo parlare di un istinto) che condiziona lungo i secoli la natura del rapporto tra Chiesa e mondo di là da ogni specifica contingenza storica. Senza scendere nel dettaglio, e affidandoci alla sintesi offertaci dalla simbologia cristiana, la Chiesa si sente barca, il mare in cui naviga è il tempo terreno, e il mondo è l’onda che solca, ora favorevole, ora avversa. Quando le è favorevole, è il momento di spiegare le vele: la verità di cui si sente depositaria e custode pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa. Quando le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare pericolosamente, le vele vengono ammainate: è il momento della carità.Va avanti così da sempre: due passi avanti ed uno indietro, ieri, due passi indietro ed uno avanti, oggi. Se ieri serviva a guadagnare posizioni, oggi serve a non perderne troppe. Cinismo, ipocrisia e opportunismo, dicevamo, sono connaturate alla Chiesa: strumenti che hanno natura e funzione analoghe a quelle degli enzimi, la cui sequenza degli aminoacidi è scritta nel dna di cui sono modulatori per la loro stessa sintesi. 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