In questa storia, ho inserito molti riferimenti cinematografici e letterari. Quello di Bergman è sicuramente il più manifesto e dichiarato. Ma Chaplin era innanzitutto un ballerino, e per lui ho immaginato una danza, una pantomima, piuttosto che una partita a scacchi. Ma in questa sfida anche la Morte un poco si mette in gioco. In qualche modo, si umanizza. Ride, per esempio, e le piace. Sembra voler perdere. E quando alla fine deve compiere il suo lavoro, ne è dispiaciuta, lo fa a malincuore. È una Morte che partecipa alle vicende degli uomini, ne è incuriosita, si mette nei loro panni, prova dei sentimenti.
Nella metamorfosi di Charlie Chaplin in Charlot è possibile ravvisare, in un certo senso, l’appiattimento della persona sul proprio personaggio fino a giungere a una perdita dell’identità che viene riscoperta soltanto in punto di morte?
Charlot è la maschera che contiene l’intera vita di Chaplin, compendia il suo passato, le sue esperienze, ma come tutte le maschere universali diventa più vera del vero perché finisce per appartenere a tutti. Una maschera non è un resoconto o un riassunto. È il cuore intimo di un’identità. In punto di morte, Chaplin si ricollega a quella che per lui rappresenta la verità più profonda della sua esistenza, ed è questa verità che desidera comunicare al figlio.
Il ritorno di Charlot a Chaplin, che chiude un ciclo di disvelamento, può in qualche modo ricordare l’escamotage narrativo alla base de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde?
Il ritratto di Dorian Gray è stata una delle letture più appassionanti della mia adolescenza. Sono sempre stato affascinato dal fantastico e dalla fantascienza, anche dal punto di vista del particolare meccanismo narrativo che l’introduzione di un elemento irreale determina in un racconto e nella curiosità di un lettore. Forse sì, questa lunga lettera di Chaplin a suo figlio è alla fine una ricomposizione dell’autore con il suo personaggio, dell’immagine riflessa con lo specchio. Chaplin è un uomo mancino, un dorso come diceva nelle interviste, un uomo che sta dal lato mancino delle cose. Charlot è la sua proiezione. Un lettore, una volta, a Torino, mi ha detto che avevo scritto una storia sull’integrazione dell’ombra. Mi è parsa una definizione molto bella e sin troppo generosa.
Io credo che il suo sia un modo di non prendere troppo sul serio neppure la vecchiaia e, soprattutto, sé stesso. Alla fine, è un uomo come tutti. Naturalmente, nei punti in cui si manifesta la fragilità della condizione umana si dilatano sia le possibilità della tragedia che quelle della commedia. La comicità di Chaplin è una comicità sovversiva e non reazionaria perché sceglie sempre di stare dalla parte del personaggio-uomo e delle sue debolezze e di dargli la possibilità, almeno in una piccola scena, di riscattarsi con una risata dalla prepotente serietà della vita, dove invece questo non accade mai.
La precarietà esistenziale dei personaggi del suo romanzo ricorda, anche se con forme diverse, quella vissuta da molti giovani italiani e che cosa si sente di consigliare loro?
I consigli sono una pratica difficile, si rischia sempre un paternalismo che non mi piace. L’unica cosa che posso dire è che in un momento difficile della mia vita trovai in un libro di Vittorio Foa questa frase di Giambattista Vico: «Sembrano traversie ma sono opportunità». Da allora, è un po’ il mio manifesto. Le traversie le incontreremo sempre. Il difficile è rovesciarle in qualcosa di positivo. La vita è l’arte della capriola.
Lei è sia bibliotecario sia scrittore, unendo così due anime. Si sente un po’ Charlot?
Non so. Un po’, forse. Come Charlot, a volte mi sento spaventosamente inconciliabile con il mondo, un po’ fuori misura o fuor d’acqua, con gli abiti e le scarpe scambiate. Ma è una sensazione che appartiene a milioni di persone. Cerco di sforzarmi e di fare del mio meglio: ma non mi dimentico che prima che bibliotecario e scrittore, che è una parola troppo grossa, e importante, per me, sono un pendolare e il treno che condivido tutti i giorni con gli altri pendolari, ormai da vent’anni, è uno dei pochi luoghi dove non mi sembra di essere nel posto sbagliato.
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