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Premio Strega 2013: sul perché avrei dato il mio voto a “Le colpe dei padri” di Alessandro Perissinotto. E qualche considerazione su “Resistere non serve a niente” di Walter Siti.

Creato il 07 luglio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

resistere non servedi Rina Brundu. Non l’ho capito! Sto parlando del testo vincitore del Premio Strega 2013, il romanzo (opera fictional, opera factual?), Resistere non serve a niente di Walter Siti (Rizzoli, 2012). O, per meglio dire, non l’ho voluto capire! Debbo anche confessare che questa sorta di review che farò sarà più tenera del mio solito, semplicemente perché dopo avere scritto un primo pezzo titolato: “Resistere non serve a niente: una boiata pazzesca?”, ho voluto mettere il tutto nel frigorifero scoprendomi afflitta da sensi di colpa. Cosa pessima, questa, in un critico che, per fare al meglio il suo lavoro, non dovrebbe avere né un’anima né una coscienza. Then again, siamo tutti proni all’errore, io più di altri, e questo lo dico chiaro perché anche dopo avere tolto la mia recensione dalla ghiacciaia l’opinione non è cambiata di un tanto, anzi, avendo quasi scordato il tema di quell’opera è meglio  che mi affretti a pubblicare le mie considerazioni…

La verità è che, dopo avere terminato la lettura del testo di Siti, le uniche immagini che mi sono venute alla mente sono immagini legate alle sublimi avventure di un altro critico, lui sì!, da ricordarsi. Sto parlando di quel ragionier Fantozzi de Il secondo tragico Fantozzi (1976), che non la mandò a dire all’autore dell’improbaile film impegnato La corazzata Kotiomkin, la cui continuata programmazione da parte del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, ossessionava i suoi giorni e le sue notti e gli impediva di fare una sana vita da tifoso couch-potato dedito alla Peroni gelata, al tifo indiavolato e al rutto libero. La differenza dal presente contesto è che la retorica fantozziana richiamava echi da insuperato genio ejzenstejniano, mentre la mia povera retorica applicata all’esegesi di Resistere non serve a niente, evoca fantasmi letterari tutt’altro che geniali.

Che a ben guardare questo mio ultimo statement non è completamente vero. A fine lettura, infatti, oltre all’inossidabile character creato da Paolo Villaggio, un altro personaggio immortale mi si è subito presentato alla mente. Specialmente mi si è subito presentato alla mente lo spirito sferzante di Sheldon Cooper, fisico teorico, eroe, antieroe, genio di fatto, scaturito dall’intelletto brillante di Chuck Lorre e Bill Prady, e per il quale ho ormai esaurito qualsiasi aggettivo possa anche solo lontanamente descriverne la grandezza. Nello specifico, ho ripensato all’indimenticabile scena nella quale Amy, la fidanzata (o per meglio dire, my friend who is not my “girl-friend”), tenta di convincere in tutti i modi Sheldon a partecipare ad una raccolta fondi patrocinata dall’Università e alla quale lui si rifiuta di presenziare, giudicandola attività indegna del suo status intellettuale superiore.

Amy Farrah Fowler: Se i tuoi colleghi fisici non sapranno fare breccia nel cuore dei filantropi, i fondi di quest’anno potrebbero andare, che ne so, alla Facoltà di Geologia.

Sheldon Cooper: Oh, Gesù! Non ai sudicioni!

Amy Farrah Fowler: O peggio!; potrebbero andare alle facoltà umanistiche.

Sheldon Cooper: No!

Amy Farrah Fowler: Milioni di dollari sperperati con i poeti, gli artisti, i critici letterari e gli studenti di sociologia.

Sheldon Cooper: Oh, l’orrore!

Muovendo da queste atmosfere da distopia conradiana africana sui generis, l’unica considerazione di una certa sostanza che mi ha portato a cogitare Resistere non serve a niente è una che nasce proprio dalla lettura di una sorta di aforisma coniato da Siti dentro il testo. Egli sostiene, infatti, che “Non si scrive quello che si vuole, si scrive solo quello che si può”. Si tratta forse della perla per cui dovrebbe essere ricordata quest’opera, ed è una grande verità. Per quanto mi riguarda, per esempio, e per dirla con Henry Becque, la metà di ciò che scrivo è dannoso, l’altra metà è inutile, nonché scritto male. E so che non potrò andare oltre. In verità mi sto preparando da tempo ad un’eternità pseudo-letteraria tormentata. Naturalmente, non avrei problemi a condividere quel triste destino con i satana miltoniani o con gli spiriti irriverenti di wildiana memoria, ho il terrore però di venire costretta in una bolgia (immeritatamente, tra l’altro, sia in un senso che nell’altro), con tutta la schiera di artisti italici, sovente collocati a sinistra di Nostro Signore (questo non giustifica comunque mezzo secolo di rincoglionimento letterario a destra!), che dagli anni 70 in poi ci hanno fatto due maroni così con le infinite costruzioni arzigogolate, pensate per stupire, pensate per creare distanza intellettuale, pensate per identificare un volgo, tese a creare una sovrastruttura retorica soffocante, ingombrante, inconcludente, auto-obliante, condita dell’onnipresente salsa erotica – una conditio sine-qua-non – e privata di qualsiasi qualità lirico-poetica. Estetica. Un po’ come se Pasolini invece di essere il Pasolini, di “Accattone”, de “Il vangelo secondo Matteo”, delle meravigliose inchieste nel Sud Italia, di qualche rigo poetico davvero ispirato, si limitasse ad essere l’anima artefatta del Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Con la differenza, naturalmente, che Pasolini era “giustificato” dai tempi di scoperta del proibito che viveva.

Ma se lo scrittore scrive solo quello che può, questo, immagino, vale anche per Siti. Debbo dunque arguire che quanto abbiamo letto in Resistere non serve a niente sia tutto ciò che questo autore può offrire al suo pubblico? Debbo pensare che la sua arte si risolva in quell’accozzaglia di luoghi comuni da letteratura-alta, moraviana, sovente demodè, sovente ridondante, a metà strada tra le rozze ragioni del cumenda lombardo magistralmente interpretato da Guido Nicheli in innumerevoli cult-movie, e le ragioni artistiche minime del già citato Pasolini? Se lo scrittore scrive solo quello che può, debbo pensare che la coscienza letteraria dello scrittore Siti faccia equazione con quell’incredibile campo semantico vittima della Sindrome Dagospia, summa linguistica confusa e sconclusionata di tutto il socialmente scontato, formato digitale, degli ultimi anni, che è Resistere non serve a niente? Dal tema delle escort, passando per il crack Lehman, finanche a Giletti, da Totò alla Fenech, dal gergo pseudo-finanziario a quello politichese, Siti non si è fatto mancare nulla, you-name-it-it-s-there! Ma se Siti non è Pasolini di sicuro non è neppure Patrick White e dunque il risultato non è altrettanto mirabile.

La trama? Che cacchio di domande fai, caro il mio unico lettore? Ci sono storie che non hanno trame, ma questo non è neppure un male. E poi ci sono personaggi, fictional or factual che siano, che non hanno vite; neppure questo è un male, solo che poi diventano ombre e nessuno se li ricorda più. Io, come dicevo, ho già scordato quelli proposti da Siti e non mi mancano. Di fatto a fine lettura mi è restata memoria solo di una scrittura comunque fresca, a tratti brillante benché mancante di figure retoriche valide, meritevole di altre possibilità. Perciò, anche se lo Scrittore-Siti non può, per limiti autodenunciati, almeno si dovrebbe sforzare. E – a proposito di terminologia polentona e demodé – possibilmente eliminando once-and-for-all il termine “negro” dal suo vocabolario che proprio non ci piace, spirito-committed o no!

In ogni caso, anche se resistere non serve a niente, io almeno intendo provarci!

Sul perché avrei dato il mio voto a “Le colpe dei padri” di Alessandro Perissinotto.

Perché è un testo che si fa amare e ha un data capacità catartica, perché ha sostanza, perché anche se la scrittura manca della brillantezza di quella di Siti – ed è indubbiamente più pesante e noiosa – fa il suo sporco dovere e porta il risultato a casa. Ripropone un’Italia proletaria e una Italia dirigenziale che è stata ed è ancora. Perché i problemi della Torino raccontata da Perissinotto sono i problemi del Paese di oggi. Perché ne Le colpe dei padri il capitalismo si fa machiavellismo operativo e non Finanza-da-macchietta sporcacciona e libertina come accade in Resistere non serve a niente.  Perché la perdità di identità del protagonista, è riflesso della perdità di identità di una intera città e di una intera nazione. Perché ci racconta i nostri antichi peccati che hanno gettato lunghe ombre e quei peccati non sono pochi. Perché focalizza anche sugli anni che hanno visto Pasolini morire vittima delle contraddizioni che purtroppo vivono anche le epoche più libertarie. Perché è didattico. Perché dopo il folle quarto di secolo che ha cambiato il mondo, a suon di bits e di bytes, e di Schema-Ponzi, restituisce un senso al quotidiano vivere, lo guarda senza saccenteria intellettuale (io non ci sarei mai riuscita!), e poi lo abbandona sul suo binario segnato. Senza strafare. Perché ci sono epoche, e questa è una di quelle, che reclamano il coraggio dell’anti-intellettualità. E infine perché quando si risponde alla domanda: chi decide le sorti di un premio letterario glorioso come il Premio Strega, la risposta non dovrebbe suonare mai né troppo orwelliana né troppo kafkiana: LORO!

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