Al mio caro amico Franco
Ho cominciato a mettere a fuoco questa teoria nel novembre del 2003 quasi per gioco. Confesso che la prima stesura m’era apparsa piuttosto superficiale. Erano tanti i temi che avevo toccato, ma che non avevo avuto modo di sviluppare sino in fondo. Avvertivo una sorta di superficialità, dovuta, senza dubbio, alla materia nuova che avevo messo a punto. Una materia di cui non sospettavo, all’inizio, tutte le sue infinite potenzialità. Ero partito dall’idea di tratteggiare dei tipi umani, e di indicarne le loro caratteristiche particolari. Avevo parlato di “seduttore”, di “competitore”, di “prevaricatore”, e avevo descritto i tratti complementari, riferibili rispettivamente all’”adattabile”, all’”adulatore” e al “sottomesso”. Avevo configurato ognuno di questi tratti come delle tipologie caratteriali, come si può parlare del tipo geloso, dell’invidioso, dell’introverso o dell’estroverso, ecc.
Quando, in un secondo tempo, cominciai a configurarli come modalità interattive complementari, ossia come strategie che un agente mette in atto al fine di affermare o preservare il proprio Sé, mi si scompaginò tutto. Il “tipo” è una categoria statica. Al contrario, la modalità strategica è una categoria dinamica. Ma l’aspetto più importante fu la ricaduta che il passaggio ebbe sul tema del Soggetto: il tipo lo presuppone, invece la modalità lo costruisce, e in quanto lo costruisce non lo presuppone. Cosicché il soggetto passò in secondo piano, definendosi sempre più come un prodotto derivato dalla modalità interattiva. E con esso, anche il concetto di “personalità”, di “carattere”, ecc. venne archiviato. Ero ormai fuori da ogni ambito psicologistico, come invece il primo approccio lasciava intravvedere. Scrissi, allora, una seconda stesura, nel corso della quale tentai di approfondire alcuni aspetti delle modalità e le implicazioni pragmatiche che esse comportavano. A quel punto, però, mi s’impose di chiarire molti dei presupposti teorici che avevo lasciato in sospeso.
Nel momento in cui compii tale capovolgimento, dal tipo alla modalità, non valutai completamente tutte le implicazioni teoriche che ne sarebbero scaturite. Si verificò nella mia riflessione una vera e propria rivoluzione teorica e metodologica che mi aprì scenari problematici del tutto nuovi, di cui mi è difficile fare adesso un elenco seppur sommario. Era come se fossi passato da una concezione dell’universo formato da “stelle fisse” a una visione dell’universo in espansione. Quando penso al concetto di “ambito interattivo” mi sento come rapito da un vortice teorico: intuitivamente intravedo le sue infinite applicazioni anche se ancora non so se il tempo, forse, mi concederà la possibilità di esplorare soltanto qualcuna.
Ad emergere con sempre più forza ed evidenza, e ad attrarre sempre più la mia attenzione fu il concetto di reciprocità. A dire il vero, la reciprocità più che un concetto rappresenta una “visione della realtà”, come si sarebbe detto un tempo. Effettivamente non so neanch’io esprimere tutto ciò che la reciprocità implica. Senza dubbio implica una visione duplice del mondo, nella quale ogni volta che si pone qualcosa per forza di cose si pone qualcos’altro. Pensare attraverso la reciprocità segnò per me la fine di una visione unilaterale e polare dell’essere: nella reciprocità ciò che diventa importante non è l’elemento che entra in gioco, ma come esso si relaziona a un altro elemento. In altri termini, con essa, attraverso essa si supera ogni concezione individuale dell’essere per porsi in una concezione totalmente duale e bipolare. Quando mi trovo a discutere con qualche amico, mi è difficile spiegare in che consiste questa concezione duale e bipolare dell’essere. Una tale visione dell’essere è talmente radicale nella sua sostanza che talvolta mi è capitato nel corso di questo lavoro di non essere neanch’io strettamente conseguente nelle sue conclusioni.
Anzitutto, ciò che la tradizione filosofica ha sempre attribuito all’essere delle cose, in realtà è attribuibile alla loro relazione. Per fare un esempio, il concetto di potere o di dominio non diventa un attributo dell’essere, ma un attributo della relazione tra due o più elementi; ma soprattutto, ad essere messo definitivamente in crisi è uno dei concetti più consolidato e indiscusso della tradizione filosofica: il concetto di “azione”. L’idea che gli agenti sociali agiscono è sempre apparsa come una verità indiscutibile, così come l’idea che le azioni siano un’emanazione o una manifestazione del nostro essere individui sociali o soggetti individuali.
La reciprocità mi ha fatto comprendere che in realtà noi non agiamo, ma interagiamo: nello stesso istante in cui un essere interviene nel mondo, egli entra necessariamente in contatto con esso. L’essere in contatto vuol dire che ogni elemento che fa parte di questo universo interagisce con tutto ciò con cui viene in contatto. Ogni atto compiuto ha un effetto di reciprocità: quando tento di aprire il tappo di una bottiglia, io non sto compiendo un’azione, ma sto interagendo con quella bottiglia. Quando tento di forzare qualcosa, non avverto soltanto la mia pressione ma avverto anche la resistenza che l’oggetto mi oppone. Quando cammino per strada avverto la durezza del terreno, la forza delle gambe che tagliano l’aria, la capacità di sollevare il piede dal terreno tenendomi in equilibrio contro la cosiddetta forza di gravità. E così accade quando tento di spostare un oggetto che mi limita la vista. O quando qualcuno oppone un rifiuto arbitrariamente a qualcosa che mi spetta, quel rifiuto lo avverto come una resistenza non alle mie forze ma al mio Sé, al mio diritto di avere un ambito non violato.
Da quel momento ho avvertito il bisogno di chiarire soprattutto a me stesso le tante implicazioni che la teoria aveva finito di sollecitare. Infatti, avevo cominciato a tralasciare gli aspetti pragmatici della teoria, da cui la teoria aveva preso le mosse, per focalizzare l’attenzione su una sorta di “antropologia della reciprocità”. La faccenda si faceva sempre più complicata, poiché volevo trattare questi argomenti con il massimo rigore teorico. Sapevo che non potevo passare all’approccio pragmatico della teoria se prima non mi fossi chiarito il suo aspetto antropologico. Man mano che procedeva nella sua messa a punto, anche l’aspetto metodologico cominciava a rivoluzionarsi: ogni acquisizione concettuale proiettava una luce nuova su tutta la rete concettuale che sino a quel momento avevo elaborato. In altri termini, ogni volta che mettevo a fuoco un concetto, la sua messa a fuoco provocava delle ripercussione su tutti gli altri concetti. Questa ripercussione era dovuto al fatto che tutti i concetti elaborati stavano tra loro in un rapporto di reciprocità. La correlazione concettuale mi costringeva ogni volta a precisare meglio un concetto alla luce delle nuove acquisizioni, o a ripercorrere lo stesso problema da una nuova e più avanzata prospettiva. Praticamente ero costretto a ripercorrere lo stesso problema o ad allargare la visione su di esso, ogniqualvolta, precisando un concetto, emergevano altri e diversi punti di vista concettuali. Per un verso ciò era dovuto al fatto che non riuscivo a dominare tutta la sua complessità concettuale, nella quale era sufficiente spostare il significato di un termine per provocare un rimescolamento complessivo di tutta la teoria. Per un altro verso, però, ciò era dovuta a una novità metodologica di cui io stesso non ho preso immediata consapevolezza.
La reciprocità è posta come un principio ontologico, come un presupposto o un fondamento indimostrabile. La reciprocità concettuale mi porta a concepire la realtà dell’essere come un sistema circolare. In questa teoria della reciprocità, ogni concetto si configura come una sorta di “semi” o di “omeomerie”: in ogni concetto sono presenti, seppur in modo implicito, tutti gli altri concetti. Per rendere chiaro questa visione omeomerica del concetto è sufficiente partire da come viene proposto il concetto del Sé: configurandolo come ambito non disponibile, si pone per necessità il concetto di limite, poiché ogni ambito deve essere per forza di cose delimitato. La non disponibilità ha senso però soltanto quando è posta in relazione a qualcos’altro di diverso da sé, cioè a un alter; ma ciò vale soltanto in un contesto interattivo, altrimenti il problema di un alter non si pone nemmeno. In un contesto interattivo si pone il problema del riconoscimento reciproco di un limite che non può essere violato. Il riconoscimento implica l’attribuzione di un punto di vista. Allo stesso tempo, il rispetto o il non rispetto del limite del proprio ambito implica che è presente all’interno della relazione interattiva un rapporto di forza o di potere tra Ego ed Alter. Il rispetto e il riconoscimento sono imposti da regole sociali che hanno la funzione di circoscrivere un ambito entro il quale è possibile interagire. Finché i limiti di ogni specifica interazione sono rispettati gli agenti interagiscono con “distacco”; il loro essere ignorati, l’essere superati o elusi implica il coinvolgimento del Sé. Ciò richiama il processo di appropriazione o di sottrazione dell’ambito, e il processo di identificazione e di differenziazione; così come richiama quello di affermazione e preservazione del Sé. Ogniqualvolta si viola questo ambito si mettono in atto specifiche modalità tese ad accrescere o a ridurre l’ambito non disponibile del Sé; si può prevaricare in modo coercitivo, superare o influenzare, suggestionare l’altro a eludere il limite interazionale; e così via, per altri concetti, quali quello di aspettativa, previsione o attesa. Questo esempio può far capire perché quando vado a modificare un solo tratto della visione concettuale ciò avrà delle ripercussioni sull’intera teoria. È chiaro che, dati questi presupposti, la mia etoanalisi si propone come una teoria perennemente aperta.
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