Pride (In the name of Love)

Creato il 08 giugno 2015 da Fredy73 @FedericaRossi5

 Per chi non lo sapesse, Benevento è una città papalina. Per otto secoli ha seguito una storia diversa dal resto del meridione, facendo parte dello stato pontificio dal 1077 quando, morto l'ultimo principe longobardo, la città si consegnò definitivamente al soglio di San Pietro. Per carità, fu una sorta di protettorato, con due rettori che, come i consoli romani, governarono quasi in autonomia.Ma ciò non toglie che per ottocento anni, Benevento si sia chiusa in un isolamento senza possibilità di riscatto. Ora, se avrete avuto la pazienza di leggere questa breve introduzione pseudo storica, potrete comprendere ancora meglio la portata di un gay pride a Benevento. Lì, sotto la Rocca dei Rettori (il cui nome rievoca proprio la dominazione pontificia), il 6 giugno si sono dati appuntamento tutti quelli convinti che il diritto è tale se è per tutti. Altrimenti si chiama privilegio. E, da qui in poi, potrei tediarvi a morte sulle motivazioni della manifestazione, sulle ragioni di chi ha ragione, sui diritti che non tolgono diritti agli altri, sull'amore che non ha sesso, sul senso di famiglia... Ma non lo farò!
Intendo piuttosto celebrare un altro orgoglio. Per me più raro e, per questo, sorprendente. L'orgoglio per la città in cui vivo, per quella Benevento che ho tante volte bistrattato in questi post, per quel "niente city" del mio blog. Perché Benevento ha reagito bene e l'onda colorata ha invaso le strade della città con allegria, con gioia, con civiltà. E ha battuto, se così si può dire, le due "contro-manifestazioni" repressive che si tenevano contemporaneamente in altri luoghi della città: da un lato una settantina di simpatizzanti di Forza Nuova; dall'altro una riunione di preghiera nella cattedrale di Benevento.Nel resto della città quasi 2000 persone libere, famiglie, bambini marciavano danzando al ritmo della musica.E altre salutavano dai balconi. Forse curiose. Sicuramente divertite. E anche un po' deluse. Perché rispetto ai gay pride mondiali, quello di Benevento è stato quasi al bon ton, senza eccessi, senza vezzi. Tanto che, i pochi sparuti "appariscenti" erano presi d'assalto per le foto ricordo, neanche fossero i finti gladiatori del Colosseo. Sì, forse questo faceva tristezza, perché la dominatrice col frustino sembrava tremendamente a disagio nell'esporsi alle videocamere degli smartphone, implacabili e onnipresenti nel cercare di catturare qualche trasgressione che, invece, non c'è stata. Ma tant'è. Per Benevento è comunque una conquista assoluta. E' un fatto storico. E' una vittoria della civiltà.In marcia per chiedere uguali diritti c'erano professionisti, insegnanti, studenti. Gente comune, insomma, nata e cresciuta in questa città. Forse qualcuno era meno disinvolto di altri. Qualche uomo ha cercato di buttare nei discorsi con nonchalance che era etero. Altri hanno seguito il corteo mano nella mano con la compagna. Ma, vinto l'iniziale imbarazzo, si è lasciato travolgere dalla gioia festosa della manifestazione, al suono degli slogan sull'amore e al ritmo della dance anni '90 (la musica della mia adolescenza. Sarà per questo che ho sempre trovato facile e naturale accogliere la gay culture?). Assenti, invece, le istituzioni (nonostante un patrocinio del Comune), forse in cerca di conferme sulla propria identità sessuale. Chi ne ha giovato, poi, è stato il depresso commercio beneventano con i B&B presi d'assalto (c'erano manifestanti provenienti da fuori) e i bar pronti a ristorare il corteo allegro, ma sudato, assetato, accaldato.Quanto a me ho indossato una maglietta nuova e sono andata, sfidando il caldo apocalittico di quella che, dalle nostre parti, si chiama la "controra": le tre del pomeriggio, roba da trasformare l'evento in una gara ad eliminazione fisica. Vi giuro che, ad un certo punto, ho davvero temuto per i pensionati della Cgil che chiudevano il corteo. Per la cronaca, anche la Uil ha aderito, così come tante associazioni e, su tutte, il Gruppo Psicologi Sanniti che ha ribadito (ma lo aveva fatto anche il locale ordine dei medici) che l'omosessualità non è una malattia. C'è bisogno di dirlo? Evidentemente (e purtroppo) ancora sì.Prima di andare, ho tolto l'etichetta dal mio capo nuovo. Era voluminosa e mi dava fastidio, creando tra l'altro, un antiestetico bozzo all'altezza della vita (come se ce ne fosse bisogno). L'ho tagliata via senza troppi complimenti e con grande soddisfazione.Proprio come andrebbe fatto con le etichette dietro cui si nascondono i malcelati giudizi di discriminazione e disuguaglianza.
Articolo originale di Federica Rossi per Poco sex e niente city. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso dell’autrice.