“Un giorno improvvisamente sentirai dentro di te il peso dei miei passi che si allontanano esitando, quel peso sarà quello più grave” (N.H.)
“Bilbao”
Accade spesso che associare alcuni cadenzati gesti meccanici, che compongono la quotidianità di ciascuna esistenza, a pensieri fuoriusciti senza annunciare la loro venuta, sgorgando come quelle correnti selvagge site in anfratti naturali, porta ognuno di noi a sconvolgere e rivoltare il corso di una specifica ma banale giornata.
Bilbao fu il pensiero sgusciato con prepotenza e tenacia dalla mente di Livia, mentre era dedita e inclinata sulla moka aperta e in procinto di versare la polvere di caffè nella parte inferiore della caffettiera.
Il forte impeto con cui si manifestarono quelle sei lettere dal suono quasi onomatopeico, con quella B ridondante e mozzata dalla brevità congenita della parola, unito all’odore pungente del caffè macinato, ricrearono in Livia quelle suggestioni così ben descritte dalle madeleine proustiane, tali da ripercorrere una ritrosia temporale che scorreva dentro un cono di luce che collegava il raziocinio della ragazza e i bordi del suo muscolo cardiaco, per sfociare in un punto preciso, in cui la vista esitava e l’ossigeno andava ad arrancare: su quel punto al limite di ogni suo percorso pulsante, vi era seduto Vanni.
Fermò tra le mani il cucchiaino e si abbandonò all’intensità olfattiva che la polvere scura stava sprigionando, inspirò forte e chiuse gli occhi, percependo una certa mestizia emotiva, quando vide Vanni alzarsi dal punto in cui lo vedeva supino, diretto perso un posto altrove, lontano da lei.
Dal loro ultimo incontro, il cercarsi vicendevole si era mosso con toni sporadici, e i loro contatti si mostrarono in tutta la loro ipocrita formalità. “Ciao come stai? Ci sentiamo”… parole minute e vuote che si arrampicavano a rilento sui fili dei rispettivi telefoni o seguivano le loro distanze, durante gli incontri timidi e frugali consumati tra Corso Magenta e via dell’Orso.
Livia afferrò le due estremità della moka per chiudere e stringere, e intanto percepì la contiguità di Raphia nei pressi dell’estremità laterale della caviglia destra. Si era totalmente completato il connubio con il felino nero, naturalizzato a gatta domestica dal momento successivo in cui le mostrò quella tenera overdose di fiducia a pochi passi dal portone di casa.
La carezza che Raphia compose sulla pelle di Livia procurò il sorgere di un sorriso dolce ma sornione sul suo volto, e distolse per poche manciate di secondi l’ipnosi mentale che il ricordo di Vanni le stava causando, destabilizzando il rito del caffè e la lucidità necessaria per comprendere quali passi avrebbe dovuto comporre per afferrare lo stato di cose che sbatteva, seppur in luoghi e in tempi differenti e in scorrimento parallelo, sui loro toraci.
Livia si era ripromessa di agire, che avrebbe dovuto sbloccare quel coma indotto in cui lei e Vanni si trovavano a viaggiare, l’uno di spalle all’altro, senza guardarsi e senza che nessuno maturasse il coraggio salvifico che conduce quasi sempre alle svolte epocali di certe situazioni.
Il rumore del caffè pronto fuoriusciva baritonale dalla caffettiera, altri rumori di tazzine e di urti sul gas, di posate sbattute, di zucchero sciolto di silenzio dei primi sorsi, di menti annebbiate e compresse.
Livia tirò su l’ultimo sorso che apparve più amaro del solito, si diresse rapace verso l’ingresso di casa, maneggiando le sue gambe con cura per evitare di inciampare su Raphia, e intanto riempiva a rate la borsa con l’intento di uscire e di usare l’aria fuori come analgesico essenziale per sgombrare sinapsi strette in gelidi blocchi di impotenza.
Decise di azzannare le strade di Milano, muovendosi a piedi, procedere a lungo e senza una data meta, volteggiare tra le vetrine e i suoi neon, confondersi tra anime sconosciute, perdersi quanto basta per reggere il peso di un amore braccato da punteruoli ispidi cosparsi di privazioni di senso, incomprensioni stantie, quelle di Livia, che non riusciva a cogliere come si potesse ancora credere che Vanni fosse inconsapevole di quel sentimento così manifesto e mirato nella sua direzione, come si potesse tuttora fingere che la danza del loro rapporto potesse finire con un inchino tiepido e un congedo sdrucciolo, graffiante, poiché privo di sincero scambio epidermico, di contatti genuini, di indifferenza composita, di falsa cortesia.
Si infilò nel corridoio della Metro Turati, affrettò il passo, con altrettanta rapidità fece sgusciare l’ipod dalla borsa e si iniettò la musica, avendo cura di selezionare qualcosa che le potesse regalare una pace apparente, quasi a voler godere di uno stolto effetto placebo sonoro, a discapito della rabbiosa progressione dei suoi pensieri corvini, in caduta libera verso ogni tutela della sua attuale serenità.
Il treno sarebbe giunto nel giro di pochi minuti, Livia si dispose ai bordi della linea gialla, tenendosi alle spalle i compagni estranei di quel breve viaggio verso direzioni a lei altrettanto estranee, ma non si curò delle dinamiche che si svolgevano intorno, era in attesa.
Le porte scorrevoli del treno si aprirono con il consueto rumore di ferro e suono acustico che ne dava il segnale, Livia indietreggiò di poco per evitare di essere travolta dall’onda umana intenta ad uscire dal metrò, in un carnevale di abiti, occhi, braccia in fibrillazione, e in quella massa più o meno indistinta di corpi, lei scorse nettamente due volti diversamente indecifrabili, fin troppo visibili, terribilmente familiari: Vanni insieme a Claudia.
Tre incessanti secondi divisero gli sguardi stupiti e contratti da dirompente imbarazzo che falciarono all’unisono Livia e Vanni, e svelarono l’inadeguatezza della successiva reazione di lui, che procedette con non curanza seriale, tenendo la mano di Claudia come impulsivo gesto estremo prima di cadere in una codardia calata a strapiombo sul cemento che paralizzava il suo passo.
Voltò verso Livia tutta la sua goffa indifferenza e sgusciò via tra la folla, Claudia stretta accanto, e Livia restò immobile e attonita, mentre le porte del treno si chiusero dietro di lei emettendo un frastuono immediato e assordante, e lei comprese quasi subito che quel rumore amplificato e insopportabile giungeva inesorabile da sotto il trench. Era il cuore, straziato e compresso dallo schiaffo sonoro che Vanni gli aveva appena servito.
Claudia, le caramelle, la sufficienza delle parole di Vanni, le sue spalle alzate con altrettanta amarezza, gli occhi posati in modo glaciale sullo specchio della sua stanza, quei discorsi dal ventre cinico e dal corpo sprezzante, e adesso quell’unione ritrovata, quell’indifferenza riversata su di lei, su Livia, spettatrice in costrizione momentanea di quell’ennesimo balletto che odorava di massacro, un’ennesima danza macabra, un triangolo dai confini spuntati a rotazione, un gioco delle torri pregno di egoismo e insensatezza, lui, lei, poi Claudia, poi lui, poi lui con Claudia, poi Vanni, poi Livia. Da sola.
Devastante si manifestò la potenza di quei secondi e della scena consumata dentro quel tempo rapidissimo, sconcertante il tentativo di Livia di trovare una spiegazione che potesse espiare ancora una volta lo stolto piglio di Vanni, inutile e patetica la reiterazione di quel tentativo, lacerante l’avvento del vuoto che andò a confluire dentro ogni vaso sanguigno di lei, in un emorragico flusso dal sapore al veleno.
Tossiche, acide e zuppe di una rabbia incontrollabile le lacrime che seguirono il primo pit-stop che la mente della ragazza subì con fare violento, senza un preavviso, una logica temporale, ed improvvisamente si andarono a scatenare, sganciandosi una ad una, le valvole di fredda consapevolezza che Livia teneva a bada con forzata determinazione, per non essere travolta anche lei dall’impudenza compulsiva che spesso incorre al primo ammaccamento sentimentale. E l’auto che conduceva l’amore di Livia verso Vanni, non aveva subito un semplice urto, aveva sfrecciato sul guard rail, vittima di un impatto letale e ora giaceva fuori strada, visibilmente distrutta.
Consapevolezza.
Consapevole Livia, senza possibilità di rigirare il corso delle cose, del segnale che Vanni le aveva inviato senza margine di fraintendimento alcuno. Di quanta fragilità, superficialità, impulsività e perché no, codardia, avesse mosso le sue azioni e i suoi intendimenti, di quanto ingiuste fossero state le parole con cui aveva sancito Claudia all’interno della sua vita, e di quanto debole si fosse mostrata la sua tempra a mantenere una qualsiasi forma di coerenza.
Fragile, come Livia non l’aveva mai scorto né conosciuto, se non altro a fronte della sua ostinata perseveranza a scacciare i fantasmi di una palese solitudine, di un effettivo rischio di osservare la sua vita con l’ottica di un giocatore vero, di qualcuno che si cala a fondo nei solchi della propria esistenza con il volto scarno da puerili paure.
Vanni continuava a prediligere il nascondere la propria incapacità di portare se stesso oltre i confini della propria immagine retorica e ormai inflazionata, tuttavia così ben esposta al pubblico giudizio, al plauso comune, indifferentemente reso dalla sua famiglia come dai suoi amici e dalla sua donna, in tutte quelle false manifestazioni di compiacimento che sopravvivono il tempo necessario di mezzo mozzicone di sigaretta, per poi eclissarsi nei soliti posaceneri ipocriti delle conversazioni di circostanza.
Vanni si atteggiava a vittima e proliferava la sua attitudine a sopravvivere ai bordi del mondo, senza mai calare un passo effettivo oltre quella linea che lo divideva da ogni sciocco timore di incapacità.
Ma Livia lo definì tale, appoggiata mestamente al muro del corridoio della metro, lo chiamò incapace e stronzo, con tutta l’aggressività e il fervore di una donna ferita dallo sguardo negato dal fulcro del suo amore oramai non corrisposto.
Accade questo quando il peso specifico e immane di una verità così brutalmente rivelata si mostra e si muove con un fare fin troppo palese e spietato.
Accade che sentiamo potente il boato che segue la perdita dell’ultima e fioca speranza cui ci aggrappiamo con tutta la nostra sentimentale tenacia, e la nostra ingenua illusione, e accade quindi che perdiamo la bussola della nostra umanità e sganciamo parole di scherno e disprezzo nei confronti di chi ha procurato una tale lacerazione emotiva. E per quanto ugualmente ingiusto sia riversare un odio verbale così profondo e sanguinolento nei confronti del carnefice di ogni nostro sprazzo di felicità, è pur sempre una pratica umana, si è pur sempre umani, con la carne che trema e le ossa che si scardinano sotto pelle. E se così non fosse, se fossimo davvero in grado di applicare ulteriore freddezza e distanza rispetto ad eventi che urlano scroscianti la parola FINE rispetto a qualcosa che credevamo possibile, saremmo anfibi, automi. Saremmo mostri.
Livia non ebbe né il tempo né la razionalità giusta per definire se stessa umana o meno; staccò le spalle dal muro e riprese a ritroso la strada per uscire dalla metro, bypassando scale mobili, divieti d’accesso, persone con cui incrociava il cammino e che notarono il suo piglio sconvolto e il viso intarsiato dal pianto.
Uscì fuori da quel luogo e corse verso casa.
Aprì con vigore la porta, si diresse decisa dentro lo studio, ignorando l’accoglienza che Raphia le stava riservando, e iniziò a scandire i suoi movimenti con un preciso ordine: aprì il suo personale cassetto ed estrasse un involucro plastificato che conteneva buste e carte da lettera. Ne prese una di ciascun tipo, osservò quella carta atteggiata a maniera, di quel colore blu acceso che portò il suo screening dei ricordi molto lontano da li, da Milano, dall’Italia.
Hotel d’Operà, Parigi, e la tendenza consuetudinaria di Livia di sottrarre la cartoleria messa a disposizione nelle camere d’albergo, come personale vezzo fraudolento teso a conservare in modo incisivo il ricordo dei viaggi macinati e delle città visitate.
Accese la lampada posata sul grosso tavolo al centro dello studio, tirò a sé la sedia e si posò comoda e risoluta, con il preciso intendere di versare un inchiostro prezioso come la portata delle parole che Livia avrebbe impresso sul foglio, tutte impregnate e dedite a costruire il più sincero e definitivo gesto d’amore di cui poteva essere capace, nonostante la costernazione dei minuti addietro, del giungere dell’amara consapevolezza, del lascito della speranza, e di tutta la triste pena dell’anima che Vanni le aveva inferto.
Quando Livia posò la penna accanto alla lampada e agitò il foglio con l’intento che l’inchiostro si asciugasse del tutto e che nessuna sbavatura contaminasse quello scritto, concesse alla sua stanca e provata mente un ultimo e dolce pensiero.
Soffermò le sue membra celebrali a stretto contatto con i vasi comunicanti l’aorta, per sentire ancora una volta il battito profondo che il cuore le inviava.
Pensò al raggio estremo e alla meta speciale che aveva raggiunto con l’ausilio del suo amore seppur infetto, e della stoltezza genetica che pervade chi ricambia una mancata unione con ulteriore sdegno e con imprecazioni ingiuste, con scelte ebre di cattivi spiriti portanti.
Consapevolezza giunse nuovamente ma per raccontarle la storia che Livia stava attraversando e per rincuorarla rispetto al meraviglioso slancio che la ragazza stava compiendo. Uno slancio di amore autentico, come sovente si intende definirlo, e cioè quell’amore che si fa beffa di ogni travaglio o incomprensione, che supera ogni incidente o strappo, al netto della sua reversibilità o meno, che passa oltre ogni rifiuto o diniego di compiersi e di spiegarsi, che si preme e ha cura che il destinatario di quell’amore serbi ogni benessere e felicità possibile, che non abbia turbamenti o che non subisca sofferenza, che sia tutelato e che non cessi mai di produrre sorrisi o ilarità condivise. L’amore autentico è quello che si nutre della pienezza e della felicità dell’altro, senza che ciò comporti una contropartita obbligata.
Così Livia definì il suo amore per Vanni, perché diversamente il suo si sarebbe definito come la sala d’attesa di due egoismi che si incontrano.
Rilesse il primo rigo della lettera: “Caro Vanni”. Non riuscì a trattenere un filo di dolce sorriso.
Non necessitava di alcuna correzione postuma, quindi la chiuse nella busta.
Aveva finalmente agito.
E Bilbao non le sembrò più cosi avversa e lontana